La legge di bilancio e l’autunno caldo

di Alberto Madoglio
La quarta legge di bilancio che il governo Meloni si appresta a varare conferma una volta di più che la politica economica del governo di destra si inserisce nel solco delle politiche di austerità anti operaie in auge nel Paese da ormai oltre un trentennio.
Attacchi del governo e della borghesia
Prima di entrare nel dettaglio, crediamo sia utile fare un quadro generale della situazione in cui si trova l’Italia. Solo nel 2024 il Pil ha raggiunto il livello che aveva prima della crisi scoppiata nel 2008: quindici anni sono serviti semplicemente a rimarginare le cicatrici di quella che è passata alle cronache come la Grande Recessione. La produzione industriale è in calo da oltre tre anni, sporadici aumenti di quell’indice non riescono a mutarne il segno profondamente negativo.
Dal 1991 i salari sono diminuiti di oltre il 3%, con un brusco calo superiore all’8% nell’ultimo quinquennio. Sempre nell’ultimo lustro, i prezzi dei generi alimentari sono cresciuti del 25%, nonostante il governo si fosse impegnato a favorire la creazione del cosiddetto «carrello tricolore», cioè un insieme di prodotti a prezzi calmierati.
La sanità ha subito tagli o mancati investimenti per decine di miliardi, avvicinandosi sempre più al livello del 6% del Pil che viene considerata la soglia minima per garantire la sopravvivenza di un sistema sanitario degno di questo nome. Stesso discorso vale per le spese per l’istruzione.
Non bisogna quindi stupirsi dei risultati delle ultime ricerche dell’Istat, secondo le quali in Italia circa il 20% della popolazione si trova in una situazione in bilico tra la povertà assoluta e quella relativa. Nonostante l’aspettativa di vita si sia innalzata, quella di «vita in condizioni sane» si è ridotta di un anno, a un’età di poco superiore ai 58 anni.
In poche parole i proletari (ma possiamo immaginare anche ampi settori di piccola o piccolissima borghesia) vivono più a lungo, ma più poveri e in condizioni di salute sempre più precarie.
E tutti i più recenti interventi non fanno altro che accentuare queste tendenze generali.
Per quanto riguarda la difesa del potere d’acquisto dei salari, gli ultimi rinnovi contrattuali di alcune categorie del pubblico impiego (scuola, sanità, enti locali) hanno previsto aumenti pari circa a un terzo del livello di inflazione registrato nel triennio ai quali questi aumenti fanno riferimento.
Per i lavoratori del settore pubblico non si deve dimenticare che i loro salari sono rimasti bloccati per circa un decennio, colpiti dalla scure della spending review. Non è esagerato ritenere che solo aumenti salariali tra il 30 e 40% potrebbero essere la soglia minima per recuperare quanto perso dal 2011 a oggi.
Una legge di bilancio nel solco della continuità
La legge di bilancio non prevede provvedimenti in grado di migliorare la situazione. Al momento sono previste una limitata riduzione delle aliquote Irpef (della quale però beneficeranno i redditi più alti) e una tassazione agevolata per i rinnovi contrattuali del settore privato.
Non solo tali provvedimenti sono del tutto irrisori, ma la loro efficacia verrà assorbita dall’aumento di altre imposte e dal fatto che il welfare continuerà a subire tagli che costringeranno milioni di lavoratori a destinare risorse per compensare i tagli.
Per quanto riguarda le pensioni, tema che da oltre tre decenni è al centro delle lotte e rivendicazioni del movimento operaio, non solo la riforma Fornero non viene cancellata, ma se possibile sarà ulteriormente peggiorata, sia a causa dell’aumento dell’età pensionabile, sia per il fatto che anche per le pensioni non sono previsti interventi per aumentarne l’importo. Inoltre si fanno sempre più insistenti le voci di un vero e proprio scippo del Tfr che nelle intenzioni del governo dovrebbe essere in futuro obbligatoriamente destinato alla previdenza privata.
Non tutti però hanno di che lamentarsi da quanto previsto dalla legge di bilancio. Le spese militari aumenteranno di oltre 3 miliardi (+10% rispetto al 2024) superando la soglia dei 30. Gli azionisti di Leonardo e Fincantieri, le due maggiori imprese tricolori dell’industria bellica, sono pronti a stappare bottiglie di spumante per festeggiare le commesse miliardarie per produrre armi che il governo riserverà loro.
Per le imprese capitaliste sono previste agevolazioni fiscali sia per gli investimenti sia per i nuovi assunti, i quali - è bene ricordarlo - sono quasi sempre precari con contratti a tempo determinato.
Banche e assicurazioni nemmeno quest’anno saranno chiamate a contribuire realmente al «benessere collettivo», nonostante la propaganda governativa voglia far credere il contrario. La cifra di cui si parla (tra i 3 e i 4 miliardi) è una goccia nel mare di profitti ottenuti in questi anni (solo per le banche si prevedono utili di oltre 30 miliardi nel 2025 e quasi 150 nel quinquennio) e comunque sarà ampiamente compensata dal già citato smantellamento di sanità e previdenza pubbliche che spingerà i lavoratori a rivolgersi al settore privato, guarda caso ampiamente presidiato da banche e assicurazioni.
Il vento è cambiato
Davanti a tutto ciò, quale sarà la reazione della classe operaia? Se in passato la speranza di una risposta di massa agli attacchi di governi e padroni sembrava essere vana, oggi il quadro è decisamente mutato. Le mobilitazioni esplose agli inizi di settembre, culminate con gli scioperi di solidarietà alla resistenza palestinese del 22 settembre e del 3 ottobre, hanno aperto una nuova stagione di conflittualità di classe.
Dopo decenni, anche in Italia la rabbia dei lavoratori, compressa da innumerevoli tradimenti da parte delle burocrazie sindacali (Cgil in testa), ha rotto gli argini della cosiddetta «pace sociale». Occupazione di scuole, università, strade, aeroporti, stazioni ferroviarie, blocco dell’operatività nei maggiori porti del Paese, hanno dato un segnale chiaro: i lavoratori non sono più disposti ad accettare in silenzio il peggioramento costante delle loro condizioni di vita. Ed è molto probabile che una combattività analoga si manifesti il prossimo 28 novembre, in occasione dello sciopero generale convocato dal sindacalismo di base.
Se questa data di mobilitazione arriva in ritardo rispetto a quelle che erano le necessità del momento, siamo certi che rappresenterà un ulteriore momento di presa di coscienza dei lavoratori. Per questa ragione non possiamo che condannare la scelta del gruppo dirigente della Cgil – scelta che appare come un tentativo di boicottare lo sciopero di novembre - di non essersi unito a questa scadenza e di aver convocato uno sciopero in una data successiva, con una piattaforma arretrata in cui non si menziona la Resistenza palestinese.
Chi si era illuso che, aderendo allo sciopero del 3 ottobre, la burocrazia Cgil si fosse ravveduta, ha dovuto ricredersi. È stata solo l’ampia mobilitazione dei lavoratori che ha costretto i burocrati della Cgil a far buon viso a cattivo gioco. Alla prima occasione Landini e soci sono tornati a fare ciò che a loro risulta più congeniale: dividere il mondo del lavoro per far sì che le lotte non acquistino un carattere troppo radicale, confermando il loro ruolo di agenti della borghesia all’interno del movimento operaio.
Per loro sfortuna questo scorcio di autunno ha dimostrato come tali tentativi risultino sempre più vani e di difficile successo. Sono le condizioni concrete che, unite all’instabilità politica e sociale a livello mondiale, spingono i lavoratori a mobilitarsi.
Che il 28 novembre sia l’inizio di una mobilitazione permanente contro governo e padroni, per porre fine a decenni di austerità e di politiche guerrafondaie! Sconfiggendo i piani del governo Meloni daremo anche un sostegno alla Resistenza del popolo palestinese, perché possa sconfiggere l’aggressione genocida dell’entità sionista, che può sopravvivere solo grazie al sostegno che a essa forniscono i briganti imperialisti, quello italiano in testa.






















