Partito di Alternativa Comunista

Polemica con Scr (ora Pcr) e altri: come alcuni «leninisti» deformano Lenin

Una tigre senza artigli.

Polemica con Scr (ora Pcr) e altri:

come alcuni «leninisti» deformano Lenin

 

 

di Francesco Ricci

 

 

 

[L'articolo che pubblichiamo qui è stato scritto per il numero del maggio scorso di Trotskismo Oggi, rivista teorica del Pdac. Si tratta di una polemica con varie interpretazioni che a nostro giudizio deformano il concetto di Lenin (e di Marx) del partito rivoluzionario d'avanguardia quale elemento indispensabile per dotare le lotte degli operai e dei giovani di quella coscienza socialista senza la quale ogni movimento è destinato a fallire.

L'articolo assume come obiettivo polemico varie posizioni che costituiscono – a nostro avviso – una deformazione del pensiero di Lenin. Tra esse in particolare qui si dedica attenzione al programma di Sinistra Classe Rivoluzione, organizzazione che proprio nei giorni scorsi ha avviato la costruzione di un nuovo partito denominato Pcr (Partito Comunista Rivoluzionario). Scr-Pcr dichiara di ispirarsi alle posizioni di Lenin e Trotsky: anche il Pdac ha gli stessi riferimenti eppure arriva a conclusioni programmatiche molto differenti da quelli di Scr-Pcr. Chi ha ragione?

Auspichiamo che questa polemica, dura ma sempre rispettosa degli sforzi che fanno militanti di organizzazioni che critichiamo, possa contribuire a un dibattito che riguarda tutti coloro che si battono per una società socialista. La redazione web].

 

 

«Anche la teoria si trasforma in una forza materiale non appena penetra fra le masse».

Karl Marx, Per la critica della filosofia del diritto di Hegel. Introduzione (Annali franco-tedeschi, 1844)

 

Come era prevedibile, per i 100 anni dalla morte di Lenin i media borghesi stanno lavorando per cercare di svuotare il significato dell'opera di uno dei più grandi rivoluzionari della storia. Ciò viene fatto ripetendo la vecchia cantilena sul «despota sanguinario» che avrebbe aperto la strada allo stalinismo e ai gulag. L'obiettivo è condannare con Lenin e la Rivoluzione d'ottobre l'idea stessa di rivoluzione e cioè la prospettiva di una società senza classi e senza sfruttamento e oppressioni. Per fare ciò si appoggiano sulle falsificazioni storiche degli stalinisti di ieri e di oggi che rivendicano una continuità tra Lenin e Stalin, cioè tra la più grande rivoluzione della storia e la sua negazione controrivoluzionaria conclusasi con la restaurazione del capitalismo in tutti gli ex Stati operai.

Il Pdac e la Lega internazionale dei lavoratori – Quarta Internazionale stanno dedicando ampio spazio a contrastare questa falsificazione, nella consapevolezza che non è possibile avanzare nella costruzione del progetto rivoluzionario senza studiare meticolosamente la storia delle rivoluzioni precedenti, e in particolare quella del 1917 e dunque l'opera del suo principale artefice: il Partito bolscevico e il suo massimo teorico, Vladimir Il'ič Lenin.

Per questo abbiamo organizzato per l'anniversario una assemblea di due giorni (1); e dedicheremo a questo tema per tutto il 2024 articoli e saggi sulla nostra stampa e sui nostri social; per questo abbiamo pubblicato, per le edizioni Rjazanov, un libro su Lenin (2). La nostra Internazionale sta pubblicando anche delle antologie tematiche dei testi di Lenin e vari saggi di approfondimento (3).

In questo articolo non ci occuperemo delle falsificazioni della stampa borghese: vorremmo piuttosto sviluppare una polemica con le posizioni di coloro che, pur rivendicando il leninismo contro le deformazioni borghesi e staliniste, finiscono per travisare, a nostro giudizio, aspetti fondamentali di questo grande patrimonio storico del movimento operaio.

Il metodo di Lenin non è mai stato quello di evitare la polemica teorica e politica a sinistra. Anzi, la gran parte degli scritti di Lenin è dedicata proprio a polemizzare con altre correnti del movimento operaio, perché senza chiarificazione programmatica non è possibile nessun reale passo avanti del movimento di lotta. Dunque è auspicabile che non si debbano leggere anche in questa occasione, come purtroppo è accaduto in passato, inviti a «non polemizzare tra comunisti».

Con questo spirito vogliamo prendere in esame alcune posizioni espresse recentemente da Sinistra classe rivoluzione (Scr, sezione della Tendenza marxista internazionale, Imt), sia perché questa organizzazione è tra le poche rimaste in Italia a definirsi, come noi, «trotskista», sia perché Scr si occupa (cosa rara, di cui va dato atto) di teoria marxista, sia soprattutto perché esprime in forma concentrata (quasi un «caso di scuola») una interpretazione molto diffusa della concezione leniniana del rapporto tra il partito, la coscienza socialista e le masse. Una interpretazione che ci sembra politicamente sbagliata e priva di fondamento teorico.

 

  1. Il Che fare? fonda una nuova teoria del partito?

Come è noto, gli stalinisti hanno da sempre presentato il famoso libro Che fare? (4), scritto da Lenin tra l'autunno del 1901 e la primavera del 1902, come una specie di manuale della «concezione leninista del partito», da leggere talmudicamente e applicare letteralmente in ogni suo aspetto in qualsiasi circostanza. Ciò con l'obiettivo di presentare Lenin e Stalin - in quanto suo presunto continuatore – come gli artefici di una «nuova concezione del partito» che dagli inizi del Novecento si sarebbe posta in rottura con la Seconda Internazionale creando concetti che sarebbero stati estranei allo stesso Marx.

Questa tesi è falsa per almeno due ordini di motivi.

Primo motivo, Lenin non ha fondato (né pretendeva di farlo) nessuna «nuova concezione» del partito (5): la concezione del partito comunista d'avanguardia, delimitato organizzativamente e programmaticamente, sta alla base di tutte le battaglie condotte da Marx e da Engels a partire dalla metà dell'Ottocento, con la Lega dei comunisti, la Prima Internazionale e la Seconda Internazionale (in quest'ultimo caso il solo Engels, Marx essendo morto alcuni anni prima della sua costituzione).

C'è da aggiungere che lo stesso Marx non partiva da zero ma riprendeva aspetti fondamentali della pratica di quello che ebbe a definire come «il primo partito comunista della storia», cioè il Club del Pantheon di Babeuf (6). Un partito, quello di Babeuf, basato sui proto-proletari della Francia di fine Settecento, organizzato in forma centralista, dotato di un programma rivoluzionario per intervenire nelle lotte dei «bras-nus» (il proletariato moderno che iniziò a comparire in Europa in quell'epoca, per poi svilupparsi in conseguenza della rivoluzione industriale), organizzato attorno a un giornale, in lotta per rovesciare il potere (incarnato nel Direttorio) e assicurare una dittatura degli insorti. Marx riprese tutti questi elementi, tramandati nei decenni seguenti da Filippo Buonarroti (7) e dalle organizzazioni rivoluzionarie degli anni Venti e Trenta dell'Ottocento, in particolare da Auguste Blanqui (8), e li sviluppò nel programma della dittatura del proletariato per la cui realizzazione collaborò alla costruzione della Lega dei comunisti prima e della Associazione internazionale degli operai (o Prima Internazionale) poi (9).

La concezione del partito d'avanguardia con influenza di massa passò quindi da Marx alla Seconda Internazionale e quindi a Lenin. Non a caso il modello a cui si ispirava Lenin – fino al crollo della Seconda Internazionale nel 1914 – era la principale sezione dell'Internazionale, la Spd.

Secondo motivo per cui la tesi sul Che fare? richiamata sopra è falsa è che questa opera non pretendeva di essere un manuale universale di costruzione del partito, dato che per Lenin non si può prescindere dalla situazione concreta in cui un partito si sta costruendo. Per questo nel Che fare? troviamo sia elementi di principio, con una valenza universale, sia aspetti contingenti legati alla tattica adatta a un determinato momento, il tutto sullo sfondo di una polemica sviluppatasi negli anni in cui il testo fu scritto.

Affermato quindi che il Che fare? non conteneva nessuna «nuova concezione del partito» (con relazione a Marx e al marxismo dell'epoca), resta tuttavia da aggiungere che è altrettanto falsa la argomentazione di chi cerca di relativizzare gli aspetti centrali questo libro e in particolare una delle sue tesi cardine: quella della coscienza «portata dall'esterno».

 

  1. La scandalosa tesi di Lenin (e di Marx) sulla «coscienza dall'esterno»

Come è noto, la tesi che Lenin afferma nel Che fare? è che la coscienza socialista non nasca spontaneamente nella classe operaia né immediatamente nell'ordinario scontro tra le classi, tra borghesia e proletariato, e debba per questo essere «portata dall'esterno», mediata dal partito che ha tra i suoi compiti principali quello di contrastare la tendenza spontanea della classe operaia a subordinarsi alla coscienza borghese.

A conforto di questa tesi teorica, Lenin riporta brani da colui che era all'epoca riconosciuto come massima autorità teorica nella Seconda Internazionale: Karl Kautsky. La conclusione di Kautsky, ripresa da Lenin, è che «[...] socialismo e lotta di classe nascono uno accanto all'altra e non uno dall'altra» (10).

Nel ribadire nel suo libro questa posizione, Lenin non credeva di stare affermando nulla di particolarmente strano per un marxista.

Difatti, come sa chiunque abbia passato almeno qualche ora a leggere i testi di Marx, e soprattutto a studiare la sua attività politica, questa tesi – che divenne dopo poco oggetto di polemica con i menscevichi – esprime una verità che verrebbe quasi da definire banale per dei marxisti. Nonostante ciò, è fitta la schiera degli studiosi che, con finalità opposte, di critica o di plauso, sostiene che la tesi della coscienza «portata dall'esterno» non si troverebbe in Marx ma solo in Lenin.

Nella vasta letteratura su questo tema (11), segnaliamo gli studi di Robert Mayer che, per quanto sostenga l'interpretazione opposta alla nostra, e cioè che con le sue tesi sulla coscienza Lenin stesse deviando dal marxismo in senso idealistico, argomenta con serietà.

Mayer sostiene la tesi di fondo che pretendiamo contestare nel presente saggio, quando scrive: «La teoria di Lenin sulla coscienza della classe operaia [...] è nei fatti incompatibile con la concezione di Marx dell'auto-emancipazione del proletariato [...] motivo per cui Lenin stesso la abbandonò dopo il 1902 considerando le forti critiche che aveva ricevuto». Questo cambio di posizione di Lenin avverrebbe nel 1907 (esaminiamo più avanti questa tesi) e per Mayer dunque su questo tema il Che fare? «esprime un'aberrazione e non la sua [di Lenin, ndr] reale convinzione» (12).

Altri ritengono di individuare la stessa contraddizione di Lenin già in Marx. In particolare trovano contraddittorio che Marx abbia affermato contemporaneamente due tesi che sembrano escludersi a vicenda: che «l'emancipazione delle classi lavoratrici deve essere conquistata dalle classi lavoratrici stesse» (13) e che «la coscienza dominante in ogni epoca è quella della classe dominante» (14).

Come è possibile, si chiedono, pensare che un proletariato ideologicamente subalterno alla borghesia possa auto-emanciparsi?

La contraddizione è però tutta nelle loro teste. Marx (e Lenin sulle sue orme) concepiva la coscienza della classe come qualcosa che si sviluppa in modo diseguale e discontinuo. Diseguale perché la classe operaia non è un monolito, è composta da cerchi concentrici di coscienza crescente e di numero decrescente, cioè da settori arretrati e settori avanzati (questi ultimi sono coloro che partecipano in un determinato momento alla lotta o rimangono, dopo la lotta, organizzati politicamente o sindacalmente). E discontinuo perché quegli stessi settori che in un determinato momento sono più avanzati potranno, in un altro momento, arretrare, secondo i fisiologici flussi e riflussi della lotta di classe.

Per fare un esempio: una parte degli operai che nell'Ottobre 1917 partecipava alla rivoluzione, tre anni prima, allo scoppio della guerra, si era ubriacata della propaganda sciovinista; gli stessi (o una parte di coloro) che nel Febbraio 1917 vedeva il governo provvisorio come «proprio»; e ancora gli stessi che pochi mesi dopo partecipavano al rovesciamento di quel governo. Gli stessi operai (almeno in parte), infine, che a metà degli anni Venti rifluiranno e saranno la base di massa passiva della burocratizzazione stalinista e del massacro dei dirigenti che avevano sostenuto nel 1917...

La coscienza della classe è mutevole nel tempo: ed è appunto per questo che è necessario costruire un partito rivoluzionario per portare la «coscienza dall'esterno».

Però, insistono i nostri sapientoni, come si può formare questo partito, se la coscienza che domina gli operai è borghese? Il fatto è che Marx parla appunto di coscienza «dominante», il che significa che non pensa sia l'unica coscienza esistente nella società capitalistica ma piuttosto che sia quella che normalmente domina sulle altre. Il partito rivoluzionario, portatore delle esperienze di lotta delle generazioni precedenti, condensate nella teoria marxista, sviluppata in stretta connessione con quelle lotte, ha come sua principale funzione proprio quella di fondere la teoria con le lotte. Ciò che significa contrastare l'ideologia dominante con l'ideologia socialista, cioè con la comprensione generale del sistema capitalistico, del suo funzionamento, della necessità di rovesciarlo con una rivoluzione per sostituire la dittatura della borghesia con la dittatura del proletariato.

Questo è precisamente il significato e il compito che Marx e Lenin attribuiscono al «partito d'avanguardia», che è tale se, intervenendo nelle lotte con un «programma transitorio» (che combina parole d'ordine minime e massime, con lo scopo di far avanzare la coscienza), riesce ad organizzare l'avanguardia per poi estendere la sua influenza su settori più grandi, rappresentando «nelle differenti fasi dello sviluppo dello scontro tra proletariato e borghesia [...] l'interesse del movimento nel suo insieme», come scrive Marx già nel Manifesto del 1848 (15). Ma questo ruolo i comunisti lo possono svolgere, continua sempre il Manifesto, proprio perché «per quel che riguarda la teoria, essi sono avvantaggiati rispetto alla restante massa del proletariato per il fatto che conoscono le condizioni, il procedere e gli esiti generali del movimento proletario» (16).

Nelle fasi di ascesa di uno scontro tra le classi, che è fisiologico, spontaneo, inevitabile nella società divisa in classi, la coscienza dominante può incrinarsi: in essa si aprono varchi che consentono al partito di guadagnare alle proprie file l'avanguardia che, a sua volta, trascinerà dietro di sé settori di massa della classe. Questa classe, trasformatasi con la rivoluzione in classe dominante dei mezzi di produzione, imporrà a sua volta alla società la propria coscienza, che diverrà così la nuova coscienza dominante.

Non si tratta di un'ipotesi astratta: se a Marx non fu dato di raggiungere questo obiettivo, al marxismo organizzato dai bolscevichi l'impresa riuscì, consentendo al più piccolo dei partiti della sinistra russa di condurre la classe operaia all'insurrezione e alla conquista del potere nel 1917. Chiaramente, l'Ottobre fu il frutto di un lungo lavoro di preparazione, di semina, di propaganda del socialismo nelle lotte, perché il partito non si improvvisa alla vigilia della rivoluzione.

 

  1. Cosa significa la «coscienza dall'esterno»

Per evitare falsi dibattiti partiamo col dire che Lenin (nel Che fare?) non nega la spontaneità della lotta di classe. Ciò che Lenin nega è che dal fisiologico scontro tra le due classi principali in cui è divisa la società nasca spontaneamente la coscienza socialista. Di lì la conclusione che è necessario portare questa coscienza «dall'esterno».

A ben vedere, non è un concetto così strano. Non è difficile comprendere come la borghesia, dominando i mezzi di produzione, controlli anche attraverso infiniti strumenti (mass media, scuole, religioni, partiti riformisti ecc.) le coscienze degli sfruttati. Non dovrebbe neppure essere difficile capire perché per Lenin (e per Marx) da ciò derivi che la classe degli sfruttati può vincere solo laddove il suo settore più avanzato si organizzi (in un partito) attorno al programma socialista, contrastando l'ideologia dominante borghese e lavorando per far comprendere questo programma a settori via via più ampi del proletariato.

Bene: il concetto di «coscienza dall'esterno», su cui si sono versati e ancora si versano fiumi di inchiostro, vuole dire semplicemente questo. Ciò che viene portato «dall'esterno» è la teoria socialista.

Questo concetto enfatizzato da Lenin nel Che fare? non è per nulla in contraddizione con la famosa tesi marxiana secondo cui «l'essere determina la coscienza»: a condizione che si comprenda che si tratta – per Marx – dell'essere sociale e che il vocabolo «determina» è qui sinonimo di «condiziona» (17).

Lenin non pretende certo di insegnare in senso scolastico il socialismo agli operai: evidentemente ha chiaro che la classe può apprendere i suoi compiti socialisti solo con la propria esperienza nella lotta. Ma c'è una condizione perché questo avvenga: che alla lotta partecipi il partito che raggruppa la parte più avanzata della classe stessa e che è il soggetto che compie l'azione di portare la «coscienza dall'esterno».

Il partito rappresenta in questo senso la mediazione necessaria tra l'elemento spontaneo («l'istinto di classe», come lo chiamava il Kautsky ancora marxista) e la coscienza socialista, tra l'immediato e il mediato. Il partito è il trait d'union tra teoria e prassi, tra la parte e il tutto, tra l'esperienza storica della lotta e la lotta presente. È la coscienza permanente, contro i flussi e i riflussi della lotta e della coscienza.

Scrive Lenin in Un passo avanti e due indietro: «sarebbe manilovismo [riferimento a Manilov, personaggio de Le anime morte di Gogol, ndr] e "codismo" pensare che col capitalismo quasi tutta la classe [...] sia capace di elevarsi alla coscienza e all'attività del proprio reparto d'avanguardia, del proprio partito [...]» (18).

 

  1. Una visione elitista della rivoluzione? Un'altra falsa interpretazione

Da oltre un secolo vengono mosse a Lenin (ma alcuni fanno lo stesso con Marx) accuse di voler affidare la liberazione della classe operaia agli intellettuali, accuse di «blanquismo» (19), di voler sostituire alla lotta delle masse quella dei «rivoluzionari di professione» (che, sia detto di passata, per Lenin significava semplicemente rivoluzionari organizzati in modo «professionale», cioè non artigianale, che pongono la rivoluzione al centro della loro vita).

Queste accuse di una presunta «sfiducia» nella classe operaia le può avanzare solo chi non abbia letto il Che fare? e soprattutto chi ignori che tutta l'attività di Lenin (e di Marx) fu diretta a fondere le lotte operaie e il socialismo, a costruire un partito che, includendo anche intellettuali provenienti da altre classi, mira a costruire intellettuali operai. È assente tanto in Marx come in Lenin l'idea di sostituire la classe operaia con gli intellettuali o con una setta: per questo entrambi hanno dedicato tutta la loro vita a elevare il settore più ampio possibile di lavoratori ai compiti storici della rivoluzione.

A puro titolo di esempio (ma gli esempi si potrebbero moltiplicare), in una importante circolare del 1879 ai dirigenti del Partito socialdemocratico tedesco, Marx ed Engels scrivevano: «Abbiamo formulato fin dai tempi dell'Internazionale la parola d'ordine della nostra lotta: "l'emancipazione della classe operaia sarà opera della classe operaia stessa". [Per questo] non possiamo condividere il partito con gente che dichiara che gli operai sono troppo ignoranti per liberarsi e devono dunque essere liberati da grandi e piccolo-borghesi filantropi» (20).

Marx distingue tra «classe in sé» e «classe per sé» (21), cioè tra la classe operaia così come è prodotta dalla società capitalistica e la classe che, lottando, acquisisce coscienza di sé: il passaggio dall'una all'altra può avvenire per Marx solo a condizione che alla lotta partecipi il partito rivoluzionario, che organizza quella parte della classe che elabora nel programma gli insegnamenti pratici delle lotte precedenti.

Quanto a Lenin, nel Che fare? si limita, per così dire, a ripetere Marx, cioè a ribadire l'abc della concezione marxiana del partito d'avanguardia (22).

La attribuzione a Lenin di una visione «elitista», di una presunta volontà di sostituire la classe con gli intellettuali, può essere smentita sia studiando la storia del Partito bolscevico sia dedicando qualche ora a leggere realmente il Che fare? senza affidarsi a letture di seconda mano.

Vale la pena di riportare per esteso la riflessione contenuta nel Che fare?: «Dal momento che non si può parlare di una ideologia indipendente, elaborata dalle stesse masse operaie nel corso stesso del loro movimento, la questione si può porre solamente così: o ideologia borghese o ideologia socialista. [...] Si parla della spontaneità; ma lo sviluppo spontaneo del movimento operaio fa sì che esso si subordini all’ideologia borghese [...]. Perciò il nostro compito [...] consiste nel combattere la spontaneità [...]».

E per evitare equivoci (che tuttavia abbondarono comunque) aggiunge: «Certo non ne consegue che gli operai non partecipino a questa elaborazione; ma non vi partecipano come operai, bensì come teorici del socialismo [...]» (23).

Non solo non c'è, come si vede, una concezione elitista, ma l'attacco di Lenin è proprio indirizzato contro una simile concezione! Erano infatti gli «economicisti» (nelle loro diverse varianti) a sostenere che la classe operaia fosse incapace di comprendere il socialismo e con questa scusa limitavano il programma a obiettivi immediati.

Già nel II Congresso del Posdr (1903), vedendo che un settore degli economicisti cercava di attribuirgli idee non sue, Lenin ribadì nel dibattito: «Lenin non tiene affatto conto che anche gli operai partecipano alla formazione dell'ideologia. Davvero? Ma non ho forse detto più e più volte che la maggiore deficienza del nostro movimento è proprio la mancanza di operai del tutto coscienti, di operai dirigenti, di operai rivoluzionari? Non si dice forse in quell'opuscolo [il Che fare?, ndr] che la formazione di questi operai rivoluzionari deve divenire il nostro compito immediato? (...) Non vi si conduce forse una lotta accanita contro ogni tentativo di abbassare il livello degli operai d'avanguardia al livello della massa o al livello degli elementi medi?» (24).

Qui come altrove Lenin distingue tra operai in generale e operai-rivoluzionari, cioè gli operai che si formano nel partito e che per questo, e solo per questo, possono portare la coscienza socialista nella classe, adempiendo ai loro compiti di avanguardia. Per Lenin infatti sono principalmente gli operai, organizzati nel partito, coloro che possono portare la coscienza socialista ad altri operai.

Fu Plechanov per primo, nell'estate del 1904, quando ruppe con Lenin per riallinearsi ai menscevichi, ad attribuire a Lenin una visione al contempo idealistica ed elitistica. Lo fece a partire in particolare da un articolo pubblicato sulla «nuova Iskra» dal titolo “La classe operaia e gli intellettuali socialdemocratici” (25). Qui Plechanov accusa Lenin di non comprendere la relazione di «riflesso» che (a suo dire) il marxismo individua tra l'essere e la coscienza. Nell'articolo Plechanov sostiene di aver visto da subito nel libro di Lenin dei gravi errori ma di non aver insistito su questo auspicando che non fossero la base di tutta una teorizzazione. Solo per questo, continua, avrebbe difeso Lenin nel Congresso, mentre si sarebbe deciso a criticarlo dopo aver visto che non si trattava di errori isolati.

Ci si può interrogare se le cose stiano effettivamente come le ricostruisce Plechanov o se invece il suo attacco tardivo alle tesi del Che fare? sia stato puramente strumentale alla nuova alleanza con Martov e gli altri avversari di Lenin. La nostra opinione è che ci sia nella critica di Plechanov sicuramente una deformazione cosciente delle tesi di Lenin, per poi attaccarle più facilmente; tuttavia pensiamo anche che egli vedesse realmente nella tesi della «coscienza dall'esterno» una stonatura con il marxismo, o meglio: con la sua comprensione del marxismo.

Per prima cosa Plechanov estrae dal contesto e assolutizza la frase di Lenin in cui nel Che fare? questi afferma che la teoria socialista «sorse del tutto indipendentemente dalla crescita spontanea del movimento operaio» (26). Ora, se si ricolloca la frase nel suo contesto, si vede che quel «del tutto» è un'accentuazione polemica che non corrisponde con la tesi di fondo che Lenin sta esprimendo in quelle stesse pagine. Si tratta solo di una forzatura retorica, una espressione (come dirà Lenin) «infelice». È evidente che Lenin per primo non crede che la teoria socialista sia sorta in forma del tutto indipendente, staccata, dalla classe operaia e dalle sue lotte. Ma a Plechanov interessa porre in rilievo questa frase per sostenere che Lenin vedrebbe nella classe solo una «materia inerte» che gli intellettuali dotano di «uno spirito». Compiuta questa manovra retorica, Plechanov ha facile gioco nel dimostrare che Marx ed Engels hanno sviluppato la teoria socialista in stretta connessione con la loro partecipazione al movimento operaio; e può così imputare a Lenin una affermazione che non corrisponde con la storia e che sarebbe rivelatrice di una caduta di Lenin nell'idealismo.

Però, mentre conduce l'attacco con l'abilità del polemista sperimentato, Plechanov rivela anche il suo reale pensiero. Ed è questo il punto a cui prestare attenzione perché cercando di mettere Lenin in contrasto con Marx, Plechanov in realtà dimostra soltanto che sono le sue posizioni a distanziarsi da Marx.

Scrive Plechanov: «Se è vera la tesi fondamentale del materialismo storico che afferma che il "pensiero" degli uomini è determinato dal loro "essere", e se non ci inganna quel teorema fondamentale del socialismo scientifico che dice che la rivoluzione socialista è la conseguenza necessaria delle contraddizioni proprie del capitalismo, è chiaro che a un certo stadio dello sviluppo della società gli operai dei Paesi capitalisti giungerebbero al socialismo anche se fossero lasciati alle "loro proprie forze"» (27).

Plechanov sta dicendo che il cammino della classe verso il socialismo è già tracciato e sarà percorso inevitabilmente, così come inevitabile sarà il trionfo del socialismo, restando al partito solo il compito di abbreviare i tempi di un parto che, in ogni caso, avverrà comunque.

Ora, una cosa è affermare (tesi che Lenin non mette certo in discussione) che il socialismo non cada dal cielo ma, elaborato inizialmente prevalentemente da teorici provenienti da altre classi, si sia in seguito sviluppato nell'intreccio con la lotta della classe operaia. Altra cosa è affermare che la coscienza socialista sia un prodotto inevitabile in quanto riflesso di leggi economiche che si imporrebbero sulle azioni umane con ferrea necessità, riducendo la libertà, eliminando il caso e gli elementi contingenti, e soprattutto cancellando gli scenari differenti che si aprono a seconda dell'esito (che non è predeterminato) della lotta di classe.

Questa seconda tesi – che permea tutta l'opera di Plechanov e trova il corrispettivo nella menscevica rivoluzione a tappe – va a braccetto con la riduzione di Marx a presunto sostenitore della «inevitabilità del socialismo». Si tratta di una grossolana falsificazione (nel migliore dei casi basata su una conoscenza di seconda mano di Marx), molto diffusa nella Seconda Internazionale (anche in Kautsky) e usata come «uomo di paglia» da centinaia di revisionisti che, potendo dimostrare con facilità che il socialismo non si è rivelato «inevitabile», pretendono di aver trovato così la prova del fallimento del marxismo (28).

Plechanov non è stato comunque l'unico ad attaccare Lenin caricandogli sulle spalle concezioni a lui del tutto estranee. Tutta una larga stirpe di sovietologi anti-comunisti ha campato per anni addebitando a Lenin di volta in volta il «disprezzo» o la «sfiducia» negli operai che sarebbe la causa della teoria (che a loro sembra bizzarra) della «coscienza dall'esterno». Gran parte di questi autori ha anche sostenuto che lì stavano le basi teoriche delle tendenze «dittatoriali» di Lenin, indicato come il legittimo padre dello stalinismo, dei gulag ecc. Per trovare un campionario di queste sciocchezze è sufficiente dare una scorsa ai libri dei vari Robert Service, Adam Ulam, Richard Pipes ecc (29).

Una variante di questa tesi è quella di chi, riconoscendo che sul tema della coscienza Lenin si sta limitando a riprendere Marx, ne trae la conclusione che anche Marx «non aveva fiducia» negli operai e pretendeva di «sostituirli». Su questa linea troviamo ad esempio Neil Harding, che riconosce la «ortodossia» marxista di Lenin solo per accomunarlo a un presunto «elitismo» di Marx (30).

Completando il panorama, non si può dimenticare tra gli studi meritevoli d'attenzione quello di Lars T. Lih, il quale ha dedicato anni di lavoro al Che fare? proponendo una nuova traduzione inglese filologicamente corretta e scrivendo un libro di mille pagine in cui analizza quest'opera leniniana in ogni dettaglio. Lih è uno studioso a cui va riconosciuto, pur non condividendo noi la gran parte delle sue posizioni politiche, una profonda conoscenza del tema. Rispetto alla questione in esame, Lih dimostra come la tesi della «sfiducia» di Lenin nella classe operaia possa essere smentita dalla semplice lettura del libro e di decine di altri testi precedenti e successivi (31).

Uscendo dall'ambito degli accademici, troviamo decine di dirigenti politici, inclusi molti che si rivendicano «leninisti», che hanno criticato Lenin per la tesi della «coscienza dall'esterno». Alcuni di essi, partendo da una incomprensione di questa tesi, hanno poi tentato di... salvare Lenin da sé stesso, cercando di provare che Lenin stesso avrebbe rapidamente capito di essere caduto in un errore nel Che fare?

Questo... generoso tentativo di salvare Lenin dai suoi presunti errori lo ritroviamo anche in varie correnti che si richiamano in qualche modo al marxismo o financo al trotskismo. È il caso appunto anche, come vedremo tra poco, di Sinistra classe rivoluzione e della Tendenza marxista internazionale.

Prima di parlare di questo presunto «ripensamento» di Lenin, vorremmo far notare un fatto curioso. Nell'assemblea organizzata da Scr a Bologna, alle spalle degli oratori era appeso uno striscione con la famosa frase che Lenin pone al centro del Che fare?: «senza teoria rivoluzionaria non vi può essere movimento rivoluzionario».

È curioso perché se ci si fermasse un minuto a pensare, ci si dovrebbe accorgere che quella breve frase significa che non esiste (né può esistere) nessuna spontanea coscienza socialista degli operai. Con quell'aforisma Lenin esprime un concetto: la coscienza socialista, la coscienza cioè della necessità di rompere lo Stato per instaurare per via rivoluzionaria la dittatura del proletariato, non è il riflesso della condizione materiale dei proletari né il riflesso della lotta di classe. Quella famosa frase, insomma, sintetizza proprio la necessità della «coscienza dall'esterno», portata dal partito operaio rivoluzionario.

In altre parole, i compagni di Scr hanno scelto come slogan dell'assemblea proprio la frase di Lenin che meglio smentisce la loro interpretazione di Lenin.

 

  1. La leggenda del «ripensamento» di Lenin nel 1907

Da tempo immemore chi vuole sminuire le tesi del Che fare?, relativizzandole, sostiene che Lenin, dopo aver fatto l'esperienza della Rivoluzione russa del 1905, avrebbe maturato un ripensamento, abbandonando alcuni elementi di quanto sosteneva nel libro (nel secondo capitolo) relativamente alla coscienza «portata dall'esterno».

Vediamo così che il Che fare? è da alcuni (stalinisti) venerato come il Verbo leniniano sul partito; da altri (anti-comunisti) è additato come il prodromo dello stalinismo; ed è infine difeso da altri ancora (centristi, cioè semi-riformisti) ma non nella sua tesi centrale sulla coscienza.

Questi ultimi «ammettono» che il Che fare? conterrebbe una deviazione dal marxismo e, per «salvare» Lenin dal suo errore... si premurano di rintracciare una correzione fatta dall'autore stesso.

A riprova di questo «ripensamento» di Lenin, da decenni una lunga lista di studiosi e dirigenti politici cita un testo secondario che, per l'uso che ne viene fatto, è diventato ormai famoso: la "Prefazione alla raccolta 'Dodici anni"», dell'autunno del 1907 (32).

La tesi secondo cui in questa Prefazione si troverebbe un «ripensamento» leniniano la troviamo, ad esempio, in Tony Cliff (che fu dirigente del Swp britannico) e nella sua monumentale biografia di Lenin (33). Ma anche in autori legati al cosiddetto Segretariato unificato (SU), come è il caso di Michael Löwy (34), o più in generale in tutti coloro che a vario titolo teorizzano la «spontaneità» della classe e sottovalutano il ruolo del partito.

Lo storico belga Marcel Liebman, autore di una pur pregevole monografia sui concetti fondamentali di Lenin (35) arrivò a parlare di «una rivolta di Lenin contro il leninismo», cioè di una rottura completa tra il Lenin «partitista» del 1902 e quello «spontaneista» degli anni successivi al 1905 (36).

C'è anche chi ha ritenuto di trovare un sostegno a questa tesi in Trotsky: e non solo nei suoi testi giovanili (che peraltro autocriticò) ma anche nel suo ultimo lavoro, lo Stalin (37). In realtà dobbiamo far notare che in questo libro, incompleto e non rivisto, Trotsky si sta riferendo con tutta evidenza non alla «coscienza dall'esterno», che certo non contestava e che anzi riprende in questi stessi anni quando elabora il Programma di transizione, ma alla formulazione di Kautsky (v. quanto detto al cap. 2) che, nell'enfasi polemica, era stata utilizzata da Lenin (peraltro attenuandone il significato).

Anche i dirigenti di Scr e Imt ripetono la cantilena sulla «autocritica» di Lenin, cioè sostengono che Lenin aveva esagerato ma poi lo avrebbe riconosciuto e si sarebbe corretto appunto con la Prefazione del 1907. Lo hanno fatto in due convegni organizzati per i 100 anni della morte di Lenin, dove questa tesi è stata sostenuta da Alessandro Giardiello (a Milano e poi a Bologna) e da Serena Capodicasa (a Milano).

Entrambi questi dirigenti hanno in primo luogo rivendicato il Che fare? negli aspetti a loro avviso corretti e ancora attuali (il giornale come organizzatore collettivo, l'organizzazione di quadri ecc.). Però tra questi aspetti non hanno incluso le pagine in cui Lenin argomenta la tesi del «socialismo dall'esterno». Di più, secondo Giardiello «[...] il Che fare? contiene un errore. [...] Nel Che fare? si avanza l'idea che i lavoratori spontaneamente non sviluppano una coscienza socialista, cioè che sono in grado solamente di sviluppare una coscienza tradeunionistica. [...] cioè che le idee socialiste dovessero essere portate dagli intellettuali all'interno del movimento. A questa cosa ci si aggrappano le sette spesso però la realtà storica è che Lenin ha più volte smentito [questa tesi, ndr] [...]» (38).

Giardiello ci informa anche di una scoperta che ha fatto nei suoi studi, vale la pena di citare per intero il passaggio: «Ho trovato un volantino del 1899, e cioè di tre anni precedente, in cui Lenin affermava esattamente il contrario e cioè che nella lotta i lavoratori sviluppavano spontaneamente posizioni rivoluzionarie. Ci sono poi i testi del 1905 su cui poi tornerò [...]. Ci sono una quantità di testi impressionante in cui Lenin sviluppa chiaramente un'altra idea, che è l'idea che noi tutt'oggi difendiamo e che si è vista anche in numerose rivoluzioni successive alla Rivoluzione russa, anche negli anni Sessanta e Settanta in Europa, e cioè che i lavoratori nel corso della mobilitazione organizzano embrioni di organismi di contropotere, cioè soviet [...] e sviluppano una coscienza socialista spontaneamente. La questione di costruire un partito rivoluzionario non è perché i lavoratori non possono giungere autonomamente a conclusioni rivoluzionarie ma è per raggruppare questa forza, darle una strategia generale, degli obiettivi che tendono alla conquista del potere e all'abbattimento del sistema capitalista» (39).

Serena Capodicasa, nella sua relazione, ribadisce che Lenin aveva esagerato per motivi polemici ma si sarebbe corretto sulla questione della coscienza. La «prova» di ciò starebbe appunto nella famosa (o famigerata) Prefazione del 1907. Però, quando passa a spiegare di cosa parla Lenin in quel testo, la Capodicasa non fa più cenno al tema della coscienza ma ad alcuni aspetti che Lenin indica effettivamente come contingenti e parzialmente superati quando, nel 1905, con la mobilitazione rivoluzionaria delle masse, furono conquistati per un periodo alcuni spazi democratici.

In effetti, se noi andiamo a leggere la Prefazione (è un testo di poche pagine) vediamo che Lenin polemizza con chi ha estrapolato dal Che fare? alcune espressioni polemiche o elementi contingenti. La cosa interessante è però che, quando parla del suo aver «storto il bastone in senso opposto» a quello dei suoi opponenti e di alcuni elementi ormai superati del suo libro, mai Lenin fa riferimento alla «coscienza dall'esterno» come qualcosa di esagerato o superato. Gli elementi superati dalla nuova realtà apertasi con la Rivoluzione del 1905 riguardano questioni legate alla precedente situazione di clandestinità, ad esempio l'impossibilità di un ampio principio democratico nell'elezione dei gruppi dirigenti (necessariamente sostituito da cooptazioni e nomine) e ciò che cambia nella nuova situazione sono le possibilità di svolgere una attività politica non solo clandestina, di produrre una stampa semi-legale ecc.

Quanto alle esagerazioni polemiche del libro, Lenin si riferisce semplicemente alla frase sul ruolo degli operai nella formazione dell'ideologia, frase «infelice» del suo libro che era stata utilizzata dai suoi oppositori per attribuirgli una visione elitista, come abbiamo già spiegato nel precedente capitolo 4 di questo saggio.

Insomma, elencando nella Prefazione i passaggi del libro che non sono più utili – o perché la realtà è parzialmente cambiata, o perché facevano parte di una polemica contingente – Lenin non cita mai le sue affermazioni sulla coscienza: e questo per il semplice motivo che, trattandosi dell'abc di quanto già affermato anche da Marx e da Engels sul tema, restavano (e restano, aggiungiamo noi) valide. Per convincersene è sufficiente, ripetiamolo, leggere il testo della Prefazione che in genere, invece, viene solo evocato come una prova apriori che non necessita ormai più di essere esibita. Scusandoci della lunghezza della citazione dobbiamo allora vedere cosa scrive realmente Lenin in questo testo.

«Nell'Iskra del 1904, subito dopo l'uscita dell'opuscolo Un passo avanti e due indietro, Plechanov proclama l'esistenza di un dissenso di principio con me sulla questione della spontaneità e della coscienza. [...] non risposi perché la critica di Plechanov presentava il carattere evidente di un vuoto cavillo, essendo fondata su frasi staccate dal contesto, su singole espressioni da me formulate in maniera non del tutto felice o non del tutto precisa, mentre veniva ignorato il contenuto generale» [corsivo nostro].

Lenin cioè rivendica il contenuto generale della sua tesi sulla coscienza («dall'esterno») e definisce «frasi staccate dal contesto» quelle sopra esaminate. Perché non ci siano dubbi che tra gli elementi centrali del libro, cui non intende affatto rinunciare, c'è proprio la parte sulla coscienza, continuiamo a leggere: «Il rapporto esistente tra l'elemento spontaneo e quello cosciente era stato formulato [...] in base a un accordo di tutta la redazione dell'Iskra [...]. Non era quindi neanche il caso di parlare di una qualsiasi differenza di principio tra il progetto di programma [del partito] e il Che fare? su questa questione».

Qui Lenin si sta riferendo all'accusa che era stata rivolta durante il II Congresso (1903) alla redazione dell'Iskra, in quel momento ancora unita, da parte di Akimov e Martynov, esponenti degli «economicisti» che, rifiutando il concetto di «coscienza dall'esterno» estraneo alla loro concezione spontaneista, avevano citato il libro di Lenin (uscito l'anno prima) sostenendo che il programma del partito, oggetto di discussione in quelle prime sessioni congressuali (specificamente l’ottava e la nona sessione) (40), fosse viziato da una errata visione di Lenin del rapporto spontaneità-coscienza.

Lenin nella Prefazione infatti prosegue: «Al II Congresso (agosto 1903) Martynov, l'economicista di allora, si mise a discutere contro le nostre idee circa la spontaneità e la coscienza, espresse nel programma. A Martynov replicarono tutti gli iskristi [...]. È chiaro dunque che un dissenso di fondo esisteva tra gli iskristi e gli economicisti, i quali si scagliavano contro ciò che c'era di comune nel Che fare?» [corsivo di Lenin, ndr] (41).

Dove i compagni di Scr vedono un «ripensamento» di Lenin sul tema spontaneità-coscienza? In realtà, come si vede, paradossalmente proprio nel testo che da oltre un secolo viene utilizzato per sostenere il cambiamento della posizione di Lenin sul tema della «coscienza dall'esterno», Lenin non solo non rettifica questo concetto chiave, ma lo ribadisce e lo difende!

Dunque chi parla di un «ripensamento» di Lenin sul tema o lo fa in malafede o, ed è quanto succede spesso, non ha mai letto il testo che cita, affidandosi alle interpretazioni canoniche che hanno costruito questo luogo comune tramandato da decenni.

E non è ancora tutto. Chi si prendesse la briga di leggere anche altri testi scritti da Lenin subito dopo la Rivoluzione del 1905, quando avrebbe secondo questa leggenda cambiato idea, scoprirebbe che Lenin distingue sempre tra il proletariato in generale e «il proletariato socialdemocratico» (l'espressione è di Lenin) e afferma, citiamo da uno a caso tra decine di articoli, la «convinzione che soltanto il proletariato socialdemocratico [cioè che milita nel partito comunista, ndr] è un proletariato consapevole dei propri compiti di classe» (42).

La convinzione che i lavoratori «sviluppano una coscienza socialista spontaneamente» appartiene dunque all'interpretazione di Lenin fatta (tra i tanti) da Giardiello: non all'interpretazione di Lenin fatta da Lenin, che a noi pare tutto sommato più attendibile.

 

  1. Quando nasce il bolscevismo?

L'incomprensione della teoria della «coscienza dall'esterno» – la teoria su cui Lenin (e Marx prima di lui) fondano la concezione del partito d'avanguardia – si accompagna quasi sempre con il tentativo di sminuire l'importanza dello scontro sullo Statuto nel II Congresso del Posdr. Cioè il Congresso che, tenutosi nell'estate del 1903, tra Bruxelles e Londra, porterà alla scissione del Partito in bolscevichi e menscevichi (43).

Un altro luogo comune, infatti, assai frequentato da decenni, presenta quella scissione, che nasce su un articolo dello Statuto, come casuale e non basata su elementi di principio. I fautori di questa tesi partono abitualmente da una mezza verità: nessuno dei protagonisti di quel congresso si aspettava la rottura e lo stesso Lenin affermò «non moriremo davvero per un cattivo paragrafo dello Statuto» (44).

L'altra metà di verità che si rimuove è che poco dopo i fatti, ricostruendo tutta la dinamica che portò alla scissione (in particolare in Un passo avanti e due indietro, ma anche in vari articoli di quel periodo), Lenin chiarisce che la scissione fu imprevista ma non per questo fu casuale e in ogni caso nacque da divergenze di principio.

La discussione dell'articolo 1 dello Statuto (quello che definiva le caratteristiche per essere considerati membri del Partito) nascondeva dietro due formulazioni apparentemente simili una concezione opposta del partito e della sua relazione con le classi. Per Martov, essere membri del Partito implicava la condivisione programmatica e l'impegno a sostenere il Partito con un aiuto finanziario e una qualche forma di attività. Per Lenin la frontiera del Partito era ben più delimitata e includeva solo coloro che fossero disponibili a una militanza quotidiana e disciplinata. A grandi linee: quello di Martov era un partito che non distingueva tra militanti e simpatizzanti, quello di Lenin era un partito di militanti con attorno, ben separata, un'area simpatizzante.

Martov accusava Lenin di una concezione settaria del partito, che lasciava fuori ad esempio un lavoratore in lotta, uno scioperante. Lenin rispondeva che non si poteva considerare membro del Partito chi era disposto solo a sacrificare alla rivoluzione qualche sera libera.

Il punto non era meramente organizzativo e, come si capì poco dopo e ancor meglio in tutti gli anni seguenti, si intrecciava strettamente con la lotta per l'autonomia di classe dalla borghesia e cioè con la lotta per sottrarre l'avanguardia della classe alla coscienza dominante. Difatti un partito che non distinguesse tra militanti e semplici attivisti inevitabilmente incorporerebbe elementi arretrati, portatori della coscienza borghese, e non sarebbe quindi in grado di far avanzare la coscienza di settori crescenti della classe, portando la «coscienza dall'esterno».

Come insiste Lenin: smarrire la distinzione tra la classe, l'avanguardia della classe e l'avanguardia dell'avanguardia, cioè i lavoratori organizzati nel partito, significa dimenticare che la classe nel suo insieme, e i suoi settori maggioritari in periodi normali, è succuba dell'ideologia dominante, borghese.

Dunque è vero che la formulazione di Martov appariva nell'immediato solo come un errore, ma è altrettanto vero che quell'errore apriva la strada alla successiva collaborazione di classe dei menscevichi. Non ci si può limitare cioè a ripetere la prima impressione di Lenin al Congresso, cancellando la riflessione che fece meno di un anno dopo o, peggio ancora, dimenticando che quel graffio fu l'inizio nei fatti della cancrena nel menscevismo.

Trotsky (che in quel momento aveva solo 23 anni), che pure in quell'occasione si schierò dalla parte sbagliata (i menscevichi) salvo poi correggersi e autocriticarsi, riassunse anni dopo così quanto avvenne nel Congresso del 1903: «[...] le divergenze di principio cominciavano appena a delinearsi [...]» (45) (il corsivo è nostro).

Quanto a Lenin, già pochi mesi dopo, razionalizzando quanto era avvenuto, individuava nei motivi della rottura congressuale i primi sintomi di quella che poi sarebbe diventata in breve la malattia opportunista del menscevismo. Il già citato Un passo avanti e due indietro non è semplicemente una meticolosa cronaca del II Congresso: è una ricostruzione volta a spiegare come, passando da un dibattito all'altro, dai temi minori a quelli maggiori, si fosse andata consolidando attorno a Martov e alla sua idea di partito un'area opportunista comprensiva di una minoranza iskrista e di settori anti-iskristi.

Lasciamo ancora una volta la parola a un acuto interprete di Lenin, cioè a Lenin stesso: «[...] il significato politico della divisione del nostro Partito in "maggioranza" e "minoranza" avvenuta al II Congresso [...] concerne il significato teorico della posizione della nuova Iskra [cioè dell'Iskra caduta in mano a Martov e ai menscevichi, ndr] nelle questioni organizzative, in quanto questa posizione è veramente una posizione di principio». La ricostruzione dei fatti, continua Lenin (in questo opuscolo che è del maggio 1904, nove mesi dopo il Congresso), porta «alla conclusione che la "maggioranza" è l'ala rivoluzionaria e la "minoranza" l'ala opportunistica». E ancora: «In sostanza, l'intera posizione degli opportunisti nella questione organizzativa cominciò a delinearsi sin dalle polemiche sul primo paragrafo» (46).

La Rivoluzione del 1905 confermò che un elemento apparentemente formale, statutario, rivestiva un'importanza strategica, definendo il rapporto tra il partito e le classi. Ciò fu ancora più evidente nel corso del 1917, quando menscevichi e bolscevichi si troveranno sui due lati opposti della barricata di classe, i primi nel governo borghese, i secondi all'opposizione rivoluzionaria che organizzò il rovesciamento di quel governo.

Eppure, nonostante questa sia l'interpretazione, diciamo così, autentica del pensiero di Lenin, in tanti preferiscono minimizzare quella scissione e continuare ad affermare che non fu in realtà nel 1903 che nacque il bolscevismo. Per farlo raccontano una verità che, come quel visconte di Italo Calvino, appare dimezzata.

È vero infatti che ci furono vari momenti di parziale riunificazione tra le due frazioni, e che ancora nel 1917 c'erano, alla base, strutture comuni. Ma la metà che non piace della verità, e per questo viene rimossa, è che le due frazioni – a partire dalla loro costituzione ne 1903 – funzionarono come due partiti, con propri organismi dirigenti, con una propria stampa, con posizioni opposte su gran parte delle questioni.

Il lettore che ci ha pazientemente seguito fin qui non dovrebbe stupirsi di ritrovare, nella folta schiera dei «minimizzatori» della scissione del 1903, anche i dirigenti di Scr, i quali, a partire dal loro fraintendimento generale di tutta la questione, condividono (con una coerenza che va loro riconosciuta) il luogo comune secondo cui il bolscevismo non sarebbe nato nel 1903.

Alan Woods, principale teorico dell'Internazionale di Scr, nella sua Storia del bolscevismo scrive: «L'affermazione secondo cui al II Congresso esistevano già bolscevismo e menscevismo come tendenze politiche è del tutto priva di fondamento» (47).

Alessandro Giardiello, il dirigente italiano della stessa corrente che abbiamo già incontrato sopra, dopo aver raccomandato come lettura «imprescindibile» la Storia di Woods, ha ribadito lo stesso concetto nell'assemblea su Lenin: «Dobbiamo dire chiaramente che quella idea stalinista che fa nascere il bolscevismo come corrente politica formata e definita nel 1903 è un'altra falsità storica» (48).

Eppure noi non siamo i soli a condividere questa affermazione «del tutto priva di fondamento». Un testimone diretto dei fatti ebbe a scrivere: «[...] il bolscevismo come corrente di pensiero politico e come partito politico esiste dal 1903». È possibile che questo testimone non abbia capito nulla o che sia affetto da quella che Giardiello definisce una «visione settaria». A discolpa di questo nostro testimone c'è da dire che, essendo egli morto un secolo fa, non ha potuto studiare la «imprescindibile» Storia del bolscevismo di Woods e soprattutto non ha potuto ascoltare le lezioni su Lenin di Alessandro Giardiello. Si tratta infatti, come il lettore sagace avrà già capito, di Lenin, e la citazione è tratta dall'Estremismo (1920) (49).

 

  1. La disciplina, corollario del partito delimitato

Torniamo brevemente su quel fatale II Congresso del 1903.

Quando si posero in votazione le due diverse formulazioni dell'articolo 1 dello Statuto, relative alla definizione di membro del Partito, 21 delegati che disponevano di 28 mandati (ogni delegato poteva avere più di una delega) votarono per la proposta di Martov. Lenin raccolse 20 delegati con 23 mandati. Dunque, in termini di delegati Martov vinse per il voto di una persona. Con Martov si schierò la maggioranza della vecchia redazione dell'Iskra e tutta l'ala «destra» del Congresso (tra cui gli economicisti); con Lenin si schierò Plechanov e una maggioranza dei militanti «iskristi». Trotsky, che pure era considerato il pupillo di Lenin, sostenne Martov (un errore grave, come avrà a dire egli stesso negli anni successivi, e che in ogni caso corresse poco dopo, rompendo coi menscevichi).

Martov fu dunque in maggioranza, ma una parte di quelli che avevano votato con lui abbandonarono nelle successive sessioni il Congresso. Lasciano i delegati del Bund, perché veniva respinta la loro richiesta di una larga autonomia, di fatto la pretesa di una forma federativa. Lasciarono anche alcuni economicisti. È così che Lenin si ritrovò in maggioranza quando si arrivò al voto per i nuovi organismi dirigenti e fu così che i rapporti numerici si invertirono.

Lenin (in questo momento col sostegno di Plechanov) avanzò una proposta di direzione del Partito e di nuova redazione del giornale (l'Iskra) in cui le posizioni in quel momento maggioritarie nel Congresso fossero maggioritarie anche negli organismi dirigenti. Propose una redazione composta da lui stesso, Plechanov e Martov. Martov contrappose la proposta che tre membri su cinque della direzione fossero scelti tra coloro che lo sostenevano, e per l'Iskra propose la conferma della vecchia redazione di sei membri, in cui sarebbe così risultato in maggioranza.

Nel dibattito i martoviani iniziarono a lanciare contro Lenin l'accusa di «burocratismo». Ecco come Lenin racconta questo scontro: Martov accusa la maggioranza «di aver creato un regime di esecuzioni capitali alla Robespierre (sic!), di aver organizzato i funerali politici ai vecchi compagni (la non elezione negli organi centrali equivale a un funerale!) ecc.».

A queste accuse grottesche Lenin rispose ricordando che «[...] la volontà della maggioranza di un congresso di partito si manifesta sempre [...] con la scelta di determinate persone» (50).

Le proposte di Lenin ottennero la maggioranza e Martov decise di boicottare gli organismi eletti dal Congresso, rifiutandosi di far parte della redazione.

Dopo il Congresso, Plechanov tenterà prima una conciliazione con Martov, passando poi a proporre la cooptazione nella redazione dei menscevichi che non erano stati eletti e infine, rifiutando le decisioni del Congresso, passò coi menscevichi. A quel punto Lenin sarà costretto a dimettersi dal giornale e si aprirà la stagione della cosiddetta «nuova Iskra», che diventa strumento della frazione di minoranza.

Lo scontro nel Congresso tra quelli che in seguito saranno chiamati bolscevichi e menscevichi non riguardava direttamente, come abbiamo visto (nel capitolo precedente), né il programma né il regime interno al Partito. Ma gli sviluppi degli anni seguenti porteranno alla luce il legame tra la definizione dei membri del Partito, il programma e il regime interno.

Difatti la formulazione di Martov, aprendo il Partito a semplici attivisti, senza un reale vincolo di militanza, implicava la cancellazione della barriera di classe tra il partito rivoluzionario e la borghesia. E un partito che non distingue tra militanti e simpatizzanti non può basarsi su un reale centralismo democratico e sulla disciplina, tende a sostituirli con «le frasi anarchiche [...] la tendenza all'autonomismo contro il centralismo», di qui «la loro [dei menscevichi, ndr] ostilità verso l'idea ("burocratica") dell'edificazione del partito dall'alto in basso, a cominciare dal congresso e dagli organismi da esso eletti, e la loro tendenza ad andare dal basso in alto [...]» (51).

Sul tema del regime interno al Partito lo scontro si svilupperà dopo il II Congresso in particolare nel già citato Un passo avanti e due indietro (1904). È qui (anche se ancora non compare l'espressione «centralismo democratico») che Lenin difende un regime centralista rigoroso, la disciplina «di ferro», il principio di maggioranza, la subordinazione della parte al tutto, cioè delle sezioni locali al Congresso e agli organismi eletti dal Congresso, di ogni militante (e dirigente) agli organismi dirigenti. Senza un regime interno di questo tipo, il partito si trasforma da organizzazione di combattimento in un club di discussione, inadatto allo scopo di portare «il socialismo dall'esterno».

 

  1. Le conferme della storia

Di là dalle interpretazioni della storiografia, e dal necessario rigore filologico, è un fatto che la teoria di Lenin (e di Marx) sulla «coscienza portata dall'esterno», cioè da un partito operaio d'avanguardia nella lotta di classe, ha trovato infinite conferme nella storia.

In assenza di un partito programmaticamente e organizzativamente delimitato, la classe operaia è stata innumerevoli volte condotta dai dirigenti riformisti ad accodarsi al carro degli interessi borghesi. E ciò è avvenuto persino nei momenti più acuti dello scontro di classe, cioè nelle rivoluzioni.

Si pensi anche solo al 1917, quando la classe operaia arrivò a organizzare i soviet quali strumenti non solo di lotta ma, in quel momento, organismi embrionali di potere. Ebbene, persino in quel momento, se non ci fosse stato il Partito bolscevico a far comprendere all'avanguardia e a vaste masse la necessità della rottura rivoluzionaria per sostituire lo Stato borghese con uno Stato operaio, la dittatura del proletariato («tutto il potere ai soviet»), persino nel vivo della rivoluzione i soviet restavano maggioritariamente subalterni al governo provvisorio, cioè a un governo borghese diretto dai partiti riformisti.

Cosa è in effetti la vittoria bolscevica nell’Ottobre se non il frutto della «coscienza portata dall'esterno»?

È per questo che Trotsky, che certo non sminuiva il ruolo dei soviet (di cui era stato presidente già nella Rivoluzione del 1905), che non contrapponeva i soviet al partito, affermava con una battuta che le «tre condizioni» di una rivoluzione vittoriosa sono: «il partito, il partito e ancora il partito». In quanto «i fatti hanno provato che, senza un partito capace di dirigere la rivoluzione proletaria, diventa impossibile la rivoluzione stessa. Il proletariato non può prendere il potere con una sollevazione spontanea. Persino nella Germania altamente industrializzata ed acculturata, la sollevazione spontanea dei lavoratori nel novembre 1918 è riuscita soltanto a trasferire il potere nelle mani della borghesia» (52).

Non si trovano in Trotsky, in Lenin, in Marx, modifiche rispetto a questo punto: è il partito - che include la parte più avanzata della classe operaia – e unicamente il partito che può portare la «coscienza dall'esterno» dell'ordinario scontro tra le classi.

Questo tipo di partito può includere «nelle sue file organizzate soltanto la minoranza degli operai» e ciò «fino al momento in cui il potere statale non sarà conquistato dal proletariato e questo non avrà consolidato una volta per tutte il proprio dominio», come ebbe a ribadire l'Internazionale comunista nelle “Tesi sul partito” del suo II Congresso, poste a fondamento della costruzione del partito in tutti i Paesi (53). A conferma, sia detto di passata, che questi concetti non valevano (a differenza di quanto si legge a volte) solo per la Russia zarista di inizio secolo bensì furono concepiti con una valenza generale.

Quanto alla nozione di «coscienza dall'esterno», essa fu ribadita da Trotsky anche quando, nel 1938, stava elaborando il programma della Quarta Internazionale, meglio noto come Programma di transizione. Nelle conversazioni con dirigenti trotskisti statunitensi Trotsky afferma: «Ma non possiamo adattare il programma alla coscienza arretrata degli operai [...] Ovunque io chiedo: cosa dovremmo fare? Conformare il nostro programma alle condizioni oggettive o alla coscienza degli operai? [...]. Questo programma è un programma scientifico. È basato su un'analisi oggettiva delle condizioni oggettive. Non può essere compreso completamente dagli operai» (54).

Ovviamente Trotsky non sta contrapponendo intellettuali e operai: si sta riferendo agli operai esterni al partito operaio che porta «la coscienza dall'esterno».

Proviamo a comparare queste affermazioni di Trotsky con quelle di Alessandro Giardiello sugli operai che «sviluppano una coscienza socialista spontaneamente» e la sua aspra critica del concetto di «socialismo dall'esterno» a cui, a suo dire, «si aggrappano le sette».(55) Dovremmo concluderne che tra i settari criticati da Giardiello vanno inclusi anche... Lenin e Trotsky.

Ma lasciamo che sia Trotsky, per una volta, a spiegare a Giardiello come lui e Lenin concepivano la cosa: «Il proletariato può prendere il potere solo attraverso la sua avanguardia. In sé, la necessità di un potere di Stato deriva dall'insufficienza del livello culturale delle masse e dalla loro eterogeneità. [...] In questo senso, la rivoluzione e la dittatura proletaria sono il compito dell'intera classe, ma solo sotto la direzione dell'avanguardia. [...] È dimostrato dall'esperienza positiva della Rivoluzione d'ottobre e dall'esperienza negativa di altri Paesi (Germania, Austria ed infine Spagna). Nessuno ha dimostrato in pratica né cercato di spiegare in modo preciso, per iscritto, come il proletariato può impadronirsi del potere senza la direzione politica di un partito che sappia cosa vuole» (56).

Un partito «che sappia cosa vuole»: e che per questo, nel corso delle lotte, arma gli operai di questa coscienza, contrastando la spontanea coscienza borghese della classe nonché tutte le elucubrazioni sulla «coscienza socialista spontanea degli operai».

Non c'è dubbio: Trotsky sembra avere una comprensione differente da quella di Giardiello.

 

  1. Il meccanicismo come base filosofica di una incomprensione

C'è un elemento che, da Plechanov ai giorni nostri, accomuna coloro che contestano il concetto di «coscienza dall'esterno»: una interpretazione (o meglio: deformazione) economicistica della concezione materialistica della storia.

Già Engels, negli anni Novanta dell'Ottocento, dovette combattere una battaglia per ristabilire l'autentica concezione sua e di Marx. Lo fece in particolare in un gruppo di lettere scritte a dirigenti socialdemocratici in cui puntualizzò il vero significato del momento economico come decisivo solo «in ultima istanza». Ci basti qui, per capire il senso della puntualizzazione engelsiana, un riferimento alla lettera a Bloch del 1890: «[...] secondo la concezione materialistica della storia la produzione e riproduzione della vita reale è nella storia il momento in ultima istanza determinante. Di più né io né Marx abbiamo mai affermato. Se ora qualcuno distorce quell'affermazione in modo che il momento economico risulti essere l'unico determinante, trasforma quel principio in una frase fatta insignificante, astratta e assurda. [...] È un'azione reciproca di tutti questi momenti, in cui alla fine il movimento economico si impone come fattore necessario attraverso un'enorme quantità di fatti casuali [...]. In caso contrario, applicare la teoria a un qualsiasi periodo storico sarebbe certo più facile che risolvere una semplice equazione di primo grado» (57).

Non casualmente, dando alle stampe nel 1886 uno dei suoi testi più importanti su questi temi, Ludwig Feuerbach e il punto d'approdo della filosofia classica tedesca (58), Engels ritenne utile pubblicare in appendice un breve testo inedito di Marx: le “Tesi su Feuerbach”.ù (59).

Quest'ultimo è un testo epigrammatico, scritto da Marx mentre con Engels stava elaborando L'ideologia tedesca (60), per riassumere a sé stesso (il testo non era destinato alla pubblicazione) come la propria concezione fosse distinta dall'idealismo ma soprattutto profondamente differente da tutto il materialismo che lo aveva preceduto, che Marx qui definisce «vecchio materialismo».

Queste tre paginette, a cui Engels diede il titolo editoriale di “Tesi su Feuerbach”, portavano come titolo originale “Ad Feuerbach”, che andrebbe tradotto più precisamente contro Feuerbach (61) considerando che è con un certo materialismo feuerbachiano che qui Marx fa i conti.

Nella prima di queste Tesi, Marx rimarca infatti la differenza tra il materialismo precedente e quello dialettico: nel vecchio materialismo (pre-marxiano) la realtà non è concepita «come attività umana sensibile, prassi». Per Marx invece è l'uomo, con la sua attività sociale, a fare la storia. Certo l'uomo (l'uomo sociale) non sceglie da sé le condizioni in cui farla, ma la storia – questo afferma Marx – non è il mero prodotto delle circostanze, che infatti (terza tesi) possono essere modificate («l'educatore deve essere educato») attraverso la «praxis» (sempre terza tesi), da cui discende (nella undicesima e famosa tesi) che: «I filosofi hanno soltanto diversamente interpretato il mondo, si tratta ora di trasformarlo» (62).

Nelle Tesi (e poi in termini più sviluppati nell'Ideologia tedesca) Marx sta affermando la propria peculiare teoria gnoseologica. Tra oggetto e soggetto della conoscenza, tra materia e coscienza, non c'è una relazione semplice di «riflesso»: la coscienza non è il mero riflesso dell'essere. In questo senso per Marx affermare che «l'essere determina la coscienza» (63) non va inteso come un rapporto di causa-effetto tra due entità separate. Il soggetto che conosce (la coscienza) è parte dell'oggetto conosciuto e, attraverso la praxis (la produzione e riproduzione della vita materiale, nel contesto della lotta di classe), modifica l'oggetto che conosce. C'è una totalità (differenziata) soggetto-oggetto.

La spesso citata (quanto poco compresa) undicesima tesi, sopra richiamata, indica appunto la necessità di superare quella concezione filosofica che per secoli, fin dall'aristotelica «verità come corrispondenza», separa conoscenza e trasformazione della realtà.

Per utilizzare termini più noti, già in questo fondamentale testo giovanile Marx sta affermando che la «struttura» (socio-economica) determina (nel senso di condiziona), sul lungo periodo storico (ecco «l'ultima istanza» engelsiana), i limiti, i confini di movimento della «sovrastruttura» (ideologica, politica ecc.).

La battaglia per ridare alla «concezione materialistica della storia» il significato voluto dai suoi due fondatori non fu evidentemente sufficiente per porre il marxismo al riparo dalle successive deformazioni che, dopo la morte di Engels, in parallelo col percorso di burocratizzazione dell'Internazionale, furono elaborate in particolare dai due principali teorici della Seconda Internazionale: Kautsky e Plechanov.

Costoro costrinsero la teoria di Marx ed Engels in un letto di Procuste, tagliandola e tirandola fino a trasformarla in quella sovrastorica filosofia della storia che i due fondatori del marxismo avevano sempre respinto.

Da lì nacque la falsificazione (poi presa come facile bersaglio dai nemici del marxismo) di un Marx eurocentrico, teorico di un corso prefissato della storia uguale per tutti i Paesi, una storia retta da «leggi» che gli uomini possono solo conoscere ma non esimersi dall'applicare. Una specie di logica trascendente in cui una Materia ipostatizzata finisce col prendere il posto del dio delle religioni.

In questa costruzione attribuita ingiustamente a Marx, il motore della storia non è più la lotta di classe, i cui esiti sono imprevedibili come in ogni lotta, ma un meccanismo metafisico in cui l'azione umana è ridotta a nulla. Non sono più le classi che fanno la storia, nelle circostanze ereditate dalle lotte precedenti, circostanze che possono essere studiate e, entro certi limiti, modificate, ma sono (a seconda delle varie interpretazioni): la Materia, la Storia, le Leggi dell'economia o della Storia ecc., in un futuro già tracciato (e in questo senso prevedibile) in cui gli uomini e le donne sono solo interpreti di un copione già scritto.

Nel Congresso del 1903 Plechanov, ancora alleato di Lenin, pur avendo manifestato all'autore varie perplessità quando il libro uscì, si vide costretto a difendere il Che fare? dagli attacchi degli economicisti. Ma si trattò in verità di una difesa a denti stretti (64). La sua vera opinione su alcune tesi del Che fare? Plechanov la esprimerà sulla «nuova Iskra» quando si staccherà da Lenin per raggiungere i menscevichi. È in questo momento che Plechanov esprime il suo vero punto di vista, accusando di idealismo Lenin per il concetto di «coscienza dall'esterno». Certo, anche l'accusa, così come l'iniziale difesa, sono opportunisticamente al servizio della collocazione politica del momento: ma non c'è dubbio che Plechanov sia più sincero quando attacca il libro di Lenin (1904) di quando lo difende (1903), perché la plechanoviana filosofia impregnata di determinismo era davvero inconciliabile col Che fare?. Per Plechanov la coscienza è il semplice riflesso della struttura, in una concezione che divide la totalità differenziata, contrapponendo struttura e sovrastruttura, e introducendo un meccanismo di causa-effetto che Marx già criticava in Feuerbach e nel materialismo seicentesco.

È sufficiente, per convincersene, leggere uno qualsiasi dei testi filosofici di Plechanov, o, a chi volesse evitare la lettura (ma farebbe male, perché contengono cose istruttive), basterebbe ricordare che di fronte all'Ottobre Plechanov pare abbia esclamato: «è una violazione di tutte le leggi della storia!», in quanto la rivoluzione non stava seguendo il percorso a tappe teorizzato dal menscevismo, basato su un materialismo contemplativo, evoluzionistico (65).

Centoventi anni dopo, la «coscienza dall'esterno» continua a turbare i sonni dei meccanicisti. Non stupisce dunque che Scr e la Imt, e il loro principale teorico, Alan Woods, impregnati come sono di meccanicismo, rifiutino del Che fare? proprio la fondamentale tesi sulla coscienza.

 

  1. Berna: quando Lenin rompe col Plechanov filosofo

Se si legge uno qualsiasi dei testi di Alan Woods dedicati a temi filosofici (66) si può constatare quanto egli sia molto più vicino al materialismo di Plechanov, un materialismo che Marx avrebbe definito «vecchio», che non al materialismo del Lenin dei Quaderni filosofici.

È qui che Lenin (1914-1915) supera l'aporia tra la concezione del partito espressa già nel Che fare? (1902), profondamente dialettica, che non concepisce la coscienza come un «riflesso» spontaneo della collocazione di classe dei lavoratori, e la propria generalizzazione sul piano teorico-filosofico, che invece restava ancora debitrice del suo antico maestro Plechanov.

Chi fosse restio a constatare questo cambiamento di Lenin non ha che da mettere a confronto alcune affermazioni di Materialismo ed empiriocriticismo (67), pubblicato nel 1909, che riprende per intero la gnoseologia plechanoviana (tra cui la cosiddetta «teoria del riflesso»), con le tesi difese nelle note contenute nei Quaderni filosofici (68).

Non abbiamo modo qui di soffermarci sul tema – su cui esiste una vasta letteratura – ma può essere utile ricordare almeno una delle affermazioni fondamentali che troviamo nei Quaderni, dove Lenin scrive che «la coscienza dell'uomo non solo riflette il mondo obiettivo ma lo crea»: una affermazione in aperta polemica con la teoria della conoscenza di Plechanov, al quale viene imputato di aver scritto migliaia di pagine di filosofia ma non una riga sulla Logica di Hegel (senza la quale, scrive Lenin, non si può comprendere realmente Il capitale di Marx). Plechanov, insiste Lenin, ha criticato l'idealismo da un punto di vista materialistico volgare non da quello materialistico dialettico (69).

È evidente dalla lettura di questi appunti che Lenin, nel criticare così aspramente Plechanov sul piano filosofico (su quello politico avevano rotto già da anni), sta anche autocriticando quanto egli stesso aveva scritto pochi anni prima – su questi aspetti – in Materialismo ed empiriocriticismo. In ogni caso, quale che sia il giudizio su questo tema, non si può negare che è dopo questo studio «filosofico», intrapreso da Lenin allo scoppio della guerra, evidentemente non come passatempo ma per rintracciare le basi ideologiche che spiegavano e coprivano la degenerazione della Seconda Internazionale (i cui partiti erano capitolati quasi tutti ai rispettivi governi borghesi impegnati nel macello della guerra), è dopo questo studio, dicevamo, che Lenin scrive quasi tutti (con l'eccezione del Che fare?, che è antecedente) i suoi testi più importanti (70). Soprattutto è in questo momento che inizia a riconsiderare i compiti della rivoluzione russa, arrivando in breve a rompere con il contraddittorio e semi-tappista programma della «dittatura democratica degli operai e dei contadini» a favore di quello della «rivoluzione permanente» Cambiamento senza il quale, vale la pena ricordarlo, non avremmo avuto la Rivoluzione d'ottobre (71).

 

  1. Il «vecchio materialismo» periodicamente ritorna

Tornando alla questione della «coscienza socialista», l'affermazione di Lenin per cui «la coscienza dell'uomo non solo riflette il mondo obiettivo ma lo crea», potrebbe essere tradotta così in relazione al tema di cui ci stiamo occupando: la teoria rivoluzionaria (che il partito operaio porta alla classe) non è un semplice riflesso della realtà ma la crea. Si tratta della medesima tesi del Che fare? che risulta indigesta a chi non comprende la differenza tra il materialismo di Marx e quello che Marx chiamava appunto «vecchio materialismo».

Questo vecchio materialismo, dominante nella Seconda Internazionale, specie nelle elaborazioni di Plechanov e Kautsky, fu così pervasivo da lasciare tracce di sé anche in vari dirigenti dell’Internazionale comunista dei primi anni Venti; pensiamo ad Amadeo Bordiga o a dirigenti bolscevichi come Bucharin (72).

Questo vecchio materialismo, combattuto da Lenin e Trotsky e di certo estraneo alle principali elaborazioni dei primi quattro congressi dell'Internazionale comunista (che precedono la degenerazione burocratica stalinista), rispunterà in epoca stalinista, col famigerato «dia-mat» (contrazione di materialismo-dialettico) dei manuali di Stalin (73).

Non abbiamo spazio per ripercorrere qui questo lungo cammino che attraversa il Novecento. Qui ci interessa però segnalare che questo tipo di materialismo – che nulla ha a che fare con Marx ed Engels – ha da sempre sottovalutato l'elemento soggettivo, pensando alla coscienza socialista come «riflesso» spontaneo, oggettivo, inevitabile, delle condizioni materiali della classe o della lotta.

Lungi dall'essere semplicemente una deviazione «filosofica» del marxismo, questa concezione a-dialettica, che non concepisce l'interruzione di gradualità, la negazione della negazione, la trasformazione della quantità in qualità, i «salti», è stata per decenni, tanto nel kautskismo come nel menscevismo e nello stalinismo, la copertura ideologica della collaborazione di classe. È servita a giustificare, in Kautsky, la fatalistica attesa di un socialismo «inevitabile»; nei menscevichi, il rinvio del socialismo in Russia a secoli futuri; nello stalinismo, la coesistenza pacifica con l'imperialismo. E in tutti e tre (kautskismo, menscevismo, stalinismo) ha coperto la collaborazione di governo con la borghesia.

Dopo di allora, abbiamo avuto molti altri utilizzi a fini opportunistici di questa deformazione del materialismo marxiano; e questa caricatura è diventata facile bersaglio, specie a partire dalla fine degli anni Settanta, della deformazione apparentemente opposta, ma in realtà convergente: quella post-modernista (74).

 

  1. Le conseguenze politiche di una incomprensione

Chiaramente molte cose sono cambiate dal 1902, quando Lenin scriveva il Che fare?, ad oggi. Ma il punto importante è: il tipo di partito che è necessario, nei suoi aspetti generali, è rimasto lo stesso teorizzato da Marx e da Lenin – e generalizzato nei testi dell'Internazionale comunista ai tempi di Lenin – oppure no? Noi crediamo di sì. È il partito operaio d'avanguardia, internazionale, che «porta la coscienza dall'esterno».

Come si capisce, non si tratta di un astratto dibattito filosofico ma porta con sé precise conseguenze concrete. Prendiamo ancora una volta le posizioni di Scr e della Imt che abbiamo usato lungo tutto questo saggio come un caso esemplare, un caso di scuola.

Il «vecchio» materialismo che informa le concezioni di Scr-Imt, così vecchio che persino il Marx della Tesi di laurea già criticava questa concezione facendola rimontare all'atomista greco Democrito (a cui preferiva proprio per questo Epicuro) (75), è la base ci sembra per l'incomprensione del Che fare? in particolare e della concezione del partito di Marx e Lenin in generale, con conseguenti effetti nella pratica quotidiana.

Per decenni, fin dalla sua nascita, la Imt ha teorizzato e praticato l'entrismo come regola generale di costruzione del partito (76), per accompagnare «l'esperienza delle masse», regola a cui derogava solo in casi eccezionali, in assenza di partiti in cui fare entrismo (come ad esempio in Italia dopo l'esplosione di Rifondazione).

Potrebbe sembrare una questione di tattica: ma non lo è. Per Trotsky (che teorizzò e praticò l'entrismo), l'entrismo costituiva non la norma ma l'eccezione alla regola della costruzione indipendente. Non per un qualche rifiuto morale a mischiarsi con i riformisti: ma per necessità di costruire un partito delimitato che porti la coscienza socialista «dall'esterno». Perché così come la coscienza socialista non nasce per «riflesso» dalle lotte, così il partito rivoluzionario non è il «riflesso» spontaneo dell'evoluzione della classe giunta a un certo stadio di coscienza.

Se questa è la concezione di Marx e Lenin, quella della Imt-Scr è esattamente capovolta. Per questo la Imt vede nei partiti riformisti il riflesso naturale della classe a un certo stadio di «evoluzione» e non ostacoli (da distruggere politicamente) diretti da «agenti della borghesia nel movimento operaio» (Lenin), che portano in esso l'ideologia della classe dominante. Di qui la strategia della Imt (salvo eccezioni) di costruirsi come ala sinistra di questi partiti.

La Imt ha poi portato il tutto fino oltre l'assurdo di considerare come partiti «socialdemocratici» quelli che sono nati dal Pci dopo la «Bolognina» (anche quando la mutazione in partito organicamente borghese era ormai completata) o il Labour Party britannico (da decenni un partito borghese).

Questa concezione equivocata del partito, come spesso accade, si è associata a una concezione non marxista dello Stato, secondo la quale potrebbero esistere, in determinate situazioni, Stati o governi «neutri» da un punto di vista di classe, e quindi «condizionabili». Di qui la lunga stagione in cui la Imt ha sostenuto il regime bonapartista venezuelano di Chavez, di cui Alan Woods si considerava come un «consigliere» (77). E di qui la rivendicazione, pochi anni fa, di un governo Corbyn basato «su un programma socialista»(78), fino a spingersi, con enfasi, a proclamare: «È la lotta della nostra vita: mobilitiamoci per la vittoria di Corbyn!» (79)

 

  1. Perché non rinunciamo al Lenin della «coscienza dall'esterno»

Volendo in conclusione riassumere la teoria leniniana sulla «coscienza dall'esterno», per comprenderne appieno l'importanza e l'attualità, potremmo dire che si compone di cinque elementi.

Primo, nessuna lotta dei lavoratori e dei giovani, per quanto radicale, evolverà da sola verso la costruzione di una società nuova in assenza di un programma basato sull'indipendenza di classe dalla borghesia e dai suoi governi. Quotidianamente vediamo esempi di ciò: lotte importanti, in varie parti del mondo, che nonostante gli sforzi profusi non portano né a una vittoria complessiva né a risultati duraturi.

Secondo, questo programma rivoluzionario, a differenza della lotta di classe (che è inevitabile in una società divisa in classi), non sorge spontaneamente dalla lotta: è necessario portare il socialismo «dall'esterno» nell'ordinario scontro tra le classi, contrastando l'ideologia borghese.

Terzo, per realizzare questo scopo è necessario un partito. Non un partito qualsiasi ma simile (nei suoi elementi principali) a quello che i bolscevichi iniziarono a costruire nel congresso del 1903, sulla base del Che fare? (e di tutta l'esperienza teorica e concreta di Marx ed Engels).

Un partito che ha per obiettivo la conquista del potere attraverso il rovesciamento del capitalismo, la rottura rivoluzionaria dello Stato borghese, la sua sostituzione con una dittatura del proletariato, primo passo nella marcia verso una società che, avendo abolito la proprietà privata dei mezzi di produzione e di scambio, e abolendo così la divisione in classi, libererà l'umanità intera da sfruttamento, oppressioni, guerre, miseria.

Quarto, questo partito – diverso da tutti gli altri – non può nascere dall'unione di rivoluzionari e riformisti («unità della sinistra»), o dall'unione di tutti coloro che per un qualche motivo si dicono comunisti («unità dei comunisti»): deve, al contrario, basarsi sulla demarcazione dal riformismo e sulla battaglia per distruggere l'influenza del riformismo tra i lavoratori. Questa è la precondizione per unire i lavoratori su un programma di classe.

Senza la scissione del 1903 tra bolscevichi e menscevichi non avremmo avuto la Rivoluzione d'ottobre. Senza un partito bolscevico tutte le rivoluzioni dell'ultimo secolo sono fallite come sono destinate a fallire, in assenza di un partito di tipo bolscevico, le rivoluzioni future.

Quinto, non si tratta di proclamare questo obiettivo ma di costruirlo giorno per giorno partecipando alle lotte immediate dei lavoratori e dei giovani, guadagnando i migliori elementi di queste lotte alla costruzione di un partito delimitato programmaticamente e organizzativamente. Un partito separato (cioè distinto dalle «masse») e integrato nelle lotte delle masse. Questa è la condizione, sostiene Lenin, per elevare strati sempre più ampi della classe al livello dell'avanguardia.

Ecco cosa significa portare la coscienza socialista «dall'esterno»: ed ecco perché i rivoluzionari non possono rinunciare a questo compito.

 

Note

1) La registrazione video dell'assemblea può essere vista sul sito web del Pdac https://www.partitodialternativacomunista.org/video

2) F. Ricci, Lenin e il Partito bolscevico, edizioni Associazione Rjazanov, 2024. Il libro è disponibile nelle principali librerie e nei negozi online di tutte le grandi catene (Feltrinelli, Amazon, Mondadori ecc.).

3) Si veda lo speciale sul sito della Lit-Quarta Internazionale https://litci.org/es/lenin-100-anos/

4) V.I. Lenin, Che fare?, 1902, in Opere complete, vol. V, Editori Riuniti, 1958. Il titolo del libro fa riferimento all'omonimo romanzo di N.G. Černyševskij, 1863, Editori Riuniti, 2020.

Černyševskij (1828-1889) fu un filosofo di impronta hegeliana, rivoluzionario e romanziere russo, molto apprezzato anche da Marx che, nel primo libro del Capitale, lo menziona come «grande dotto e critico russo» (v. K. Marx, "Poscritto alla seconda edizione", 1873, in Il capitale, Editori Riuniti, 1994, p. 40). Černyševskij scrisse il suo romanzo a sfondo filosofico mentre era rinchiuso in un carcere zarista. Il libro influenzò profondamente Lenin che ricordò di essersi avvicinato da giovane per la prima volta proprio con questa lettura al materialismo e alla dialettica (v. N. Valentinov, I miei colloqui con Lenin, 1953, Il Saggiatore, 1969, p. 62 e sgg.) e di aver poi riletto innumerevoli volte il libro. Per approfondire la conoscenza di questo importante autore, che influenzò anche il giovane Trotsky, tra l'altro con la teoria dello «sviluppo abbreviato» (che ricorda molto da vicino la teoria dello «sviluppo diseguale e combinato» che sta alla base del programma della «rivoluzione permanente»), si veda F. Venturi, Il populismo russo, Einaudi, 1972, vol. I, p. 237 e sgg.

5) Sul fatto che agli inizi del secolo, quando scrive il Che fare?, Lenin non avesse in mente (a differenza di quanto affermano gli stalinisti) la costruzione di un partito di tipo diverso e particolare è Lenin stesso ad affermarlo in varie occasioni. Ad esempio scrive nel 1905: «Dove e quando ho preteso di creare nella socialdemocrazia internazionale una tendenza particolare, non identica a quella di Bebel e Kautsky?» in "Due tattiche della socialdemocrazia", in Opere complete, vol. IX, Editori Riuniti, 1960, p. 57. Peraltro tutte le opere di Lenin di questo periodo sono punteggiate da un riferimento costante ai testi di Karl Kautsky (chiaramente prima della sua capitolazione all'opportunismo).

6) Si tratta del partito con cui F.N. Babeuf (1760-1797) organizzò, sotto il Direttorio, la famosa «Congiura degli Eguali». Marx disse appunto che «La prima apparizione di un partito comunista realmente operante si trova nella rivoluzione francese», in "La critica moraleggiante e la morale criticante", 1847, in K. Marx, F. Engels, Opere, vol. VI, ed. Lotta comunista, 2021, p. 354 e sgg. Ci permettiamo di rimandare sul tema al nostro "Come è nato il primo partito comunista della storia", in Trotskismo oggi, n. 3, gennaio 2013.

7) La diffusione delle idee di Babeuf avvenne attraverso le numerose traduzioni dal francese del libro di F. Buonarroti, Cospirazione per l'eguaglianza detta di Babeuf, 1828, Einaudi, 1971, che Marx lesse probabilmente durante la sua permanenza a Parigi nell'estate del 1844 e che cita ne La sacra famiglia, 1845, scritto con Engels, in Opere, vol. IV, ed. Lotta comunista, 2021, p. 184 e sgg.

8) Auguste Blanqui (1805-1881), fu uno dei più grandi rivoluzionari dell'Ottocento, ispiratore di una delle principali correnti politiche della Comune di Parigi del 1871, per quanto non poté parteciparvi perché arrestato la sera prima dell'insurrezione del 18 marzo. La Comune cercò, inutilmente, di scambiarlo con il vescovo Darboy e altre decine di nemici del governo rivoluzionario (poliziotti, spie, preti ecc.), incontrando il rifiuto di Thiers (gli ostaggi saranno fucilati negli ultimi giorni prima della caduta della Comune).

Blanqui pagò la sua militanza rivoluzionaria passando metà della vita nelle galere dello Stato borghese. Marx lo definì «testa e cuore del proletariato francese».

9) Sulla Lega dei comunisti, il partito per cui Marx scrisse il Manifesto del partito comunista (1848), e sulla Prima Internazionale, rimandiamo a nostri lavori di sintesi rispettivamente sui numeri 1 e 5 di Trotskismo oggi.

10) Karl Kautsky (1854-1938), fu collaboratore di Engels e considerato, alla morte di quest'ultimo, come la massima autorità teorica della Seconda Internazionale. La frase citata da Lenin è in un articolo pubblicato nella rivista diretta da Kautsky, Die Neue Zeit (1901-1902, n. 3); lo stesso concetto è nel Programma di Hainfeld (1899) della socialdemocrazia austriaca, elaborato da Kautsky e F. Adler.

11) Tra i molti studiosi che pretendono di trovare una discontinuità tra Lenin e Marx sul tema del partito e della coscienza, troviamo ad esempio il principale biografo di Plechanov (1856-1918): Samuel H. Baron, Plekhanov, the father of russian marxism, Stanford University Press, 1966, che accredita la tesi di Plechanov circa una presunta incomprensione leniniana del marxismo; sulla stessa falsariga troviamo anche David McLellan, autore di numerose opere biografiche su Marx. Tra le migliori argomentazioni del parere opposto troviamo Alan Shandro, il quale sostiene che non c'è nessuna contraddizione tra Marx e Lenin: v. ad es. "«Consciousness from without»: marxism, Lenin and the proletariat", in Science & society, vol. 59, n. 3, 1995.

12) R. Mayer, "What is not to be done: Lenin, marxism and the proletariat", (in Science & society, vol. 61, n. 3, 1997), la traduzione della citazione è nostra dall'originale in inglese. Sullo stesso tema si vedano, di Mayer, anche: "Plekhanov, Lenin and working-class consciousness", in Studies in East European though, vol. 49, n. 3, 1997; "Lenin, Kautsky and working-class consciousness", in History of European ideas, vol. 18, n. 5, 1994.

13) Questa affermazione apre gli "Statuti dell'Associazione internazionale dei lavoratori", redatti da Marx ed Engels nel 1864, in M. Musto (a cura di), Prima Internazionale - Lavoratori di tutto il mondo, unitevi! Indirizzi, Risoluzioni, Discorsi e Documenti, Donzelli editore, 2014, p. 219.

14) K. Marx, F. Engels, L'ideologia tedesca, 1845, Bompiani, 2011, p. 391. Vale la pena di riportare l'intero passaggio che recita: «Le idee della classe egemonica sono, in ogni tempo, le idee egemoniche. Ciò significa che la classe che rappresenta la potenza materiale dominante della società è, al tempo stesso, la sua potenza spirituale dominante. La classe che detiene gli strumenti della produzione materiale detiene per ciò stesso, al contempo, gli strumenti della produzione intellettuale, e così nel complesso risultano ad essa sottomesse le idee di quanti sono privi degli strumenti della produzione intellettuale».

15) K. Marx, F. Engels, Il Manifesto del Partito comunista, 1848, Bompiani, 2009, p. 265.

16) Ivi.

17) K. Marx, F. Engels, op. cit., p. 345. La frase esatta è: «Non è la coscienza a determinare l'esistenza, ma è, al contrario, l'esistenza a determinare la coscienza."

18) V.I. Lenin, Un passo avanti e due indietro, 1904, in Opere complete, vol. VII, Editori Riuniti, 1959, p. 253.

19) V. la nota 8.

20) K. Marx, F. Engels, "Circolare a Bebel, Liebknecht, Bracke e altri dirigenti del Partito operaio socialista della Germania", 1879, in Opere, vol. XXIV, ed. Lotta comunista, 2022, p. 435 e sgg.

21) K. Marx, Miseria della filosofia. Risposta alla Filosofia della miseria del signor Proudhon, 1847, Editori Riuniti, 1993, p. 120. La frase completa recita: «La dominazione del capitale ha creato a questa massa una situazione comune, interessi comuni. Così questa massa è già una classe nei confronti del capitale, ma non ancora per sé stessa. Nella lotta, della quale abbiamo segnalato solo alcune fasi, questa massa si riunisce, si costituisce in classe per sé stessa. Gli interessi che essa difende diventano interessi di classe (...)».

22) A questo tema abbiamo dedicato un ampio saggio a cui rinviamo: "A duecento anni dalla nascita: Marx e il partito rivoluzionario", in Trotskismo oggi, n. 12, primavera 2018.

23) V.I. Lenin, Che fare?, in op. cit., 1958, p. 354.

24) Intervento di Lenin al II Congresso del Posdr (1903), nona sessione, in Opere complete, vol. VI, Editori Riuniti, 1959, p. 454.

25) G.V. Plechanov, "La classe operaia e gli operai socialdemocratici", articolo pubblicato in due puntate, nel luglio-agosto 1904, sulla «nuova Iskra», disponibile in traduzione italiana nella preziosa antologia curata da G. Migliardi, Lenin e i menscevichi. L'Iskra (1900-1905), La Pietra, 1979, pp. 208-236.

26) V.I. Lenin, Che fare?, in op. cit., p. 346.

27) G.V. Plechanov, op. cit., pp. 214-215

28) Sulla genesi della teoria della «inevitabilità del socialismo» e sulla sua completa estraneità a Marx ed Engels, rimandiamo al nostro saggio scritto con Ricardo Ayala, "Il teorico della «inevitabilità» del socialismo è il Kautsky rinnegato (non Marx)" in Trotskismo oggi, n. 7, maggio 2015.

29) Service, Ulam e Pipes sono tre storici che hanno dedicato un gran numero di opere a Lenin, Trotsky, il bolscevismo. Li citiamo qui come esempi di una storiografia non solo anti-comunista ma anche superficiale, basata su analisi psicologiste ecc.

30) Cfr. N. Harding, Leninism, Duke University Press, 1996.

31) Cfr. L. Lih, Lenin rediscovered. What is to be done? in context, Brill, 2006. Oltre che di questo monumentale studio sul Che fare?, Lih è autore anche di decine di saggi sul bolscevismo. La tesi della «sfiducia» di Lenin nella classe operaia viene smontata da Lih anche, ad esempio, nel saggio "How a founding document was found, or One hundred years of Lenin's What to be done?", in Kritika: explorations in Russian and Eurasian History, vol. 4, n. 1, 2003, pp. 5-49.

32) V.I. Lenin, "Prefazione alla raccolta «Dodici anni»", 1907, in Opere complete, vol. XIII, Editori Riuniti, 1965, pp. 84-100.

33) Cfr. T. Cliff, Lenin: building the party. 1893-1914, vol. I, 1975. In particolare si veda il capitolo 4, dedicato al Che fare? e al presunto successivo ripensamento di Lenin.

34) Cfr. M. Löwy, "La théorie marxiste du parti", in Actuel Marx, n. 46, 2009, pp. 27-51.

35) M. Liebman, Le léninisme sous Lénine, Éditions du Seuil, 1973.

36) Cfr. M. Liebman, "Lenin in 1905. A revolution that shock a doctrine", in Monthly Review, vol. 21, n. 11, aprile 1970.

37) Cfr. L. Trotsky, Stalin, 1940, ed. italiana: Ac Editoriale, 2017, p. 122.

38) I convegni di Milano e Bologna organizzati da Scr si sono tenuti rispettivamente nel dicembre 2023 e gennaio 2024. I video delle relazioni di Giardiello e della Capodicasa, a cui facciamo riferimento, sono pubblicati a questo link https://www.youtube.com/@sinistraclasserivoluzione

39) V. il link nella nota 38.

40) I verbali di alcune delle sessioni del II Congresso del Posdr (1903) si possono leggere in italiano nell'appendice all'ottima edizione del Che fare? curata da V. Strada per Einaudi, 1971. In lingua inglese sono disponibili i verbali completi di tutte le 37 sessioni del Congresso. 1903, Second Congress of the Russian social-democratic labour party, New Park Publications, 1978. Il libro è disponibile anche sul sito marxists.org a questo link https://tinyurl.com/2m6wcszf

41) V.I. Lenin, "Prefazione alla raccolta «Dodici anni»", op. cit., p. 94.

42) V.I. Lenin, "Imparate dai nemici" in Opere complete, vol. X, Editori Riuniti, 1961, pp. 50-51.

43) Il 30 luglio 1903, a Bruxelles, inizia il II Congresso del Partito operaio socialdemocratico russo (Posdr). Si tratta del primo vero congresso, dato che quello fondativo, nel marzo 1898, si era concluso con l'arresto di gran parte dei dirigenti. Il 7 agosto, per sfuggire alla polizia i delegati si trasferiscono per proseguire il Congresso a Londra. Sono inizialmente 43 delegati che dispongono in tutto di 51 voti deliberativi mentre altri 14 hanno un voto consultivo. Le 51 deleghe sono così suddivise: 33 sono in mano ai sostenitori del giornale Iskra (cioè «la scintilla», che inizia ad uscire dal dicembre 1900), 5 al Bund (l'organizzazione ebraica), 3 agli economicisti, 10 infine a delegati non facenti parte di nessuna tendenza interna.

44) L'ironica affermazione fu fatta da Lenin in un intervento nel dibattito, nella ventitreesima sessione, si veda a pag. 305 dell'appendice curata da V. Strada citata nella nota 40.

45) L. Trotsky, La mia vita, 1930, Mondadori, 1976, p. 176.

46) V.I. Lenin, Un passo avanti e due indietro, in op. cit., 1959, pp. 199-200.

47) A. Woods, Bolshevism, the road to revolution, 1999, Wellred Publications, 2018, p. 156 (la traduzione dall'inglese è nostra).

48) V. il link nella nota 38.

49) V.I. Lenin, L'estremismo, malattia infantile del comunismo, 1920, in Opere complete, vol. XXI, Editori Riuniti, 1967, p. 15.

50) V.I. Lenin, "Perché sono uscito dalla redazione dell'Iskra", 1903, in Opere complete, vol. VII, Editori Riuniti, 1959, pp. 113-119.

51) V.I. Lenin, Un passo avanti e due indietro, in op. cit., 1959, pp. 200-201.

52) L. Trotsky, Le lezioni dell'Ottobre, 1924, in Opere scelte, Prospettiva edizioni, vol. III, 1998, p. 207.

53) Cfr. "Tesi sul ruolo del partito comunista nella rivoluzione proletaria", 1920, in A. Agosti (a cura di), La Terza Internazionale. Storia documentaria, vol. I.1, Editori Riuniti, 1974, pp. 226-227.

54) L. Trotsky, "Completare il programma e metterlo all'opera", 1938, in Programma di transizione, Massari editore, 2018, p. 163.

55) V. il link nella nota 38.

56) L. Trotsky, "Bolscevismo e stalinismo. Sulle radici storiche e teoriche della Quarta Internazionale", 1937, in Opere scelte, Prospettiva edizioni, vol. VI, 2000, p. 138.

57) F. Engels, "Lettera a J. Bloch", 21-22 settembre 1890, in Opere, vol. XLVIII, ed. Lotta comunista, 2021, pp. 339-342. Per un approfondimento su questo gruppo di lettere di Engels, fondamentali per ripristinare la corretta concezione materialistica della storia, rimandiamo all'articolo di F. Stefanoni, "Il materialismo storico riscattato dalle lettere di Engels", in Trotskismo oggi, n. 22, autunno 2023, che contiene anche una selezione di questi testi engelsiani.

58) F. Engels, Ludwig Feuerbach e il punto di approdo della filosofia classica tedesca, 1886, in Opere, vol. XXVI, ed. Lotta comunista, 2019, p. 291 e sgg.

59) K. Marx, “Tesi su Feuerbach”, 1845, in Opere, vol. V, ed. Lotta comunista, 2022, pp. 47-54. Per una introduzione alla lettura delle Tesi, rimandiamo all'articolo di F. Stefanoni, "Perché i filosofi non cambiano il mondo. La critica di Marx ed Engels ai Giovani hegeliani e a Feuerbach. Cosa c'è di ancora attuale in quel dibattito?", in Trotskismo oggi, n. 16, primavera 2020.

60) K. Marx, F. Engels, op. cit., 2011.

61) Sulla traduzione più fedele del titolo delle “Tesi su Feuerbach”, si veda l'acuta osservazione di S.C. Morais Marques, “Questões filosóficas decorrentes das traduções das Teses sobre Feuerbach” nella rivista brasiliana Critica Marxista, n. 35, 2012. L'autore fa notare che il titolo dato da Marx a questo testo era “Ad Feuerbach, dove la particella latina «ad» (preposizione accusativa) andrebbe tradotta in questo caso più precisamente come «contro» (sul calco del titolo delle lettere di Cicerone, Ad Brutum, abitualmente tradotte come Contro Bruto).

62) K. Marx, “Tesi su Feuerbach”, in op. cit., 2022.

63) Cfr. K. Marx, F. Engels, op. cit., 2011, p. 345. V. in proposito la nota 17.

64) Cfr. l'intervento di Plechanov, su questo tema, nella nona sessione del II Congresso del Posdr, v. la già citata edizione Einaudi del Che fare? curata da V. Strada, p. 282-283.

65) Per approfondire questo dibattito rinviamo al nostro saggio "Che cosa è la teoria della rivoluzione permanente", in Trotskismo oggi, n. 1, settembre 2011. Ci siamo occupati del tema anche in svariati articoli, in particolare in: "Il programma e il partito che vinsero a Ottobre. Il filo rosso da Marx ai bolscevichi", in Trotskismo oggi, n. 11, autunno 2017.

66) La concezione fortemente intrisa di determinismo di Alan Woods risulta evidente leggendo, ad esempio, il libro La rivolta della ragione. Filosofia marxista e scienza moderna, scritto con Ted Grant, edizione italiana: Ac Editoriale, 1997. Altrettanto chiaro risulta il meccanicismo di Woods ad esempio nel saggio "In difesa del materialismo", reperibile in traduzione italiana sul sito di Scr a questo link https://rivoluzione.red/in-difesa-del-materialismo/

67) V.I. Lenin, Materialismo ed empiriocriticismo, 1908-1909, in Opere complete, vol. XIV, Editori Riuniti, 1963.

Si tratta dell'unica opera di Lenin interamente consacrata a temi filosofici, motivata da una polemica con un settore dei bolscevichi guidato da A. Bogdanov, V. Bazarov, A. Lunačarskij. Lenin polemizza con le concezioni gnoseologiche di questa corrente contro cui stava anche conducendo una battaglia politica. Su questo importante dibattito, che non può essere riassunto in poche parole, ci ripromettiamo di tornare in un prossimo articolo specifico.

68) V.I. Lenin, Quaderni filosofici, in Opere complete, vol. XXXVIII, Editori Riuniti, 1969. Sotto questo titolo editoriale sono compresi vari appunti di studio e commenti di Lenin (non destinati alla pubblicazione) a testi filosofici. Nel presente saggio ci riferiamo agli otto quaderni di appunti del periodo 1914-1915 e in particolar modo ai tre quaderni con estratti e commenti alla Scienza della logica di Hegel.

69) Cfr. V.I. Lenin, Quaderni filosofici, in op. cit., 1969.

70) Dopo lo studio di Berna Lenin elabora una serie di testi che hanno in comune una diversa comprensione della dialettica rispetto alle precedenti opere. Abbiamo i quaderni sull'imperialismo il cui materiale confluirà in L'imperialismo, fase suprema del capitalismo, in Opere complete, vol. XXII, Editori Riuniti, 1966. Abbiamo il quaderno di appunti sul Della guerra, opera del più hegeliano dei teorici militari, von Clausewitz (la più recente edizione italiana è per i tipi di Gwynplaine, 2010, col titolo redazionale: L'arte dell'insurrezione), riflessioni da cui nascerà la posizione di Lenin davanti alla guerra imperialistica. Abbiamo le polemiche (del 1915-1916) contro il cosiddetto «economicismo imperialistico», cioè le posizioni di un settore bolscevico, il «gruppo di Baugy», guidato da Bucharin, Radek e Pjatakov, in difesa dell'autodeterminazione dei popoli oppressi (si vedano i testi contenuti nel volume XXIII delle Opere complete). Abbiamo il «quaderno azzurro» sul tema dello Stato, scavo archeologico per ritrovare le reali posizioni marxiane sul tema fondamentale dello Stato, travisate da Kautsky, studio che sarà alla base del libro più importante di Lenin, Stato e rivoluzione, 1918 (nel volume XXV delle Opere complete) e che troverà espressione politica nelle Tesi di aprile, cioè le tesi con cui nell'aprile 1917 il Partito bolscevico cambierà il proprio programma.

71) V. i rimandi indicati nella nota 65.

72) Di Bucharin si veda La teoria del materialismo storico. Testo popolare della sociologia marxista, 1921, Unicopli, 1983.

La lettura di questo «manuale» improntato a un evoluzionismo volgare rende chiaro lo spietato giudizio di Lenin quando (nel suo cosiddetto "Testamento") ebbe a scrivere che Bucharin non aveva compreso nulla della dialettica. Il libro di Bucharin fu anche aspramente criticato da Gramsci nei Quaderni del carcere, Einaudi, 1975, a cura di V. Gerratana. Cfr. in particolare i quaderni 7 e 11.

73) Cfr. ad esempio J. Stalin, Materismo storico e materialismo dialettico, 1938, in Storia del Partito Comunista, cap. 4 reperibile su internet a questo link https://www.marxists.org/italiano/reference/stalin/diamat.html

74) La nostra opinione sul postmodernismo filosofico e politico è espressa in "Il postmodernismo, ideologia senile del riformismo", in Trotskismo oggi, n. 21, primavera 2023, che contiene anche una vasta bibliografia sul tema.

75) Sul tema si veda l'articolo di F. Stefanoni sul presente numero di Trotskismo oggi.

76) Sul tema si veda in particolare: T. Grant, "Problems of entrism", 1959, che fonda la strategia entrista seguita per decenni dalla corrente di cui fu fondatore (con Alan Woods). Si può leggere a questo link www.tedgrant.org/archive/grant/1959/03/entrism.htm

Va segnalato che nell'ultima fase, con quella che in apparenza è una svolta rispetto a decenni di entrismo nei partiti riformisti (o anche borghesi), la Imt ha lanciato lo slogan della costruzione di una «nuova Internazionale», che, da quanto leggiamo, si baserebbe su una specie di «reclutamento di massa» (nelle intenzioni, s'intende, in quanto la realtà è altra cosa), tanto che Giardiello, nell'assemblea bolognese ha annunciato il superamento dei 500 militanti e si è spinto a vagheggiare il rapido traguardo dei mille militanti che, sempre secondo la sua peculiare forma di calcolo, porterebbe poi con una relativa facilità a passare «da mille a diecimila» (sic!).

77) Ci limitiamo a ricordare l'imbarazzante testo scritto in morte del dittatore, nel 2013, dal titolo: "Hugo Chavez è morto: la lotta per il socialismo è viva!". Riportiamone alcuni eloquenti brani: «Noi piangiamo per Hugo Chavez ma non dobbiamo lasciare che le lacrime ci accechino. [...] Quando il cordoglio sarà finito, la lotta dovrà continuare. Chavez non si aspetterebbe nulla di meno. [...] Noi ci impegnamo a continuare e intensificare la lotta per difendere la rivoluzione bolivariana. [...] Hugo Chavez è morto prima di completare il grande progetto che si era prefissato: il compimento della rivoluzione socialista in Venezuela.»

78) La rivendicazione di un governo Corbyn è contenuta in decine di articoli e testi, si veda ad esempio "What we are fighting for", disponibile al link www.socialist.net/socialist-appeal-stands-for.htm

79) L'articolo è disponibile a questo link www.socialist.net/we-face-the-fight-of-our-lives-mobilise-for-a-corbyn-victory.htm

 

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