Governo Draghi e Unione europea:
una nuova stagione di sacrifici per i lavoratori
di Alberto Madoglio
Durante questo anno e mezzo di pandemia, la propaganda ufficiale ha cercato in tutti i modi di far passare un racconto rassicurante. Il tutto si potrebbe riassumere in questo modo: la crisi sanitaria ha dimostrato quanto il mondo e le regole che lo hanno governato negli ultimi decenni, si sono rivelati fragili e non in grado di rispondere alle nuove sfide. Le politiche di austerità si sono dimostrate ingiuste e inefficaci. Un nuovo spirito di solidarietà deve governare l’economia per evitare che qualcuno possa essere lasciato senza adeguate tutele economiche e sanitarie.
Tutti sulla stessa barca? I padroni in prima classe, gli operai nella stiva
A riprova di questa versione ufficiale tutta rose e fiori, vengono portate ad esempio alcune decisioni prese dal governo a partire dal mese di marzo dello scorso anno: blocco dei licenziamenti, stanziamento di ingenti risorse finanziarie per limitare il più possibile gli effetti che il dilagare della pandemia aveva su un quadro economico che per l’Italia era assai precario da diverso tempo.
Tuttavia, come spesso accade, la realtà si è presa il compito di smascherare il ruolo assunto dalla propaganda ufficiale. Per quanto riguarda il blocco dei licenziamenti, questo non è riuscito ad evitare che centinaia di migliaia di posti di lavoro venissero persi nel corso del 2020. Stime precise non esistono, ma si parla comunque di una cifra tra le 400.000 e le 600.000 unità. Governo e mass media hanno tentato di giustificarsi affermando che per la stragrande maggioranza dei casi si trattava di posti di lavoro a tempo determinato che una volta giunti al termine non venivano rinnovati. Come se questo contasse poi molto per chi, dopo magari una intera vita lavorativa fatta di contratti precari, si è trovato dalla sera alla mattina senza un salario, che in questi casi non permetteva comunque loro di poter vivere in maniera decorosa. Allo stesso tempo è risaputo che in moltissimi casi le aziende hanno continuato a licenziare lavoratori sia evitando di rispettare la decisione governativa, non subendo per questo comportamento illegale nessuna sanzione; sia aggirandola in maniera «legale» ma truffaldina, cioè ricorrendo ai licenziamenti attraverso la scorciatoia delle sanzioni disciplinari.
Anche per quanto riguarda l’elargizione di risorse pubbliche, non tutti ne hanno beneficiato allo stesso modo. Uno studio prodotto dalla Uil afferma che dei 140 miliardi stanziati dal governo, la maggior parte è andata a beneficio delle imprese. Solo una minima parte, 4 miliardi, è stata stanziata direttamente a favore delle lavoratrici e dei lavoratori.
Circa 30 miliardi sono stati stanziati per finanziare il ricorso enorme alla cassa integrazione. Bisogna però ricordare che durante la pandemia, il finanziamento della cassa integrazione (che comunque comporta un taglio drastico del salario) è stato totalmente a carico dello Stato, contribuendo così ad aumentare a dismisura il deficit e il debito pubblico, con effetti dei quali parleremo tra poco.
Il caso certamente più eclatante che prova la natura classista dell’azione di governo a favore degli interessi della grande borghesia, è stato il prestito di 6 miliardi garantito dallo Stato (più di quanto stanziato per milioni di proletari) concesso a Fca per consentirle di distribuire un dividendo straordinario ai suoi azionisti in vista della fusione con Peugeot, evitando che fossero le pingui casse della multinazionale degli Elkann Agnelli a doversene fare carico.
Dalla Ue prime avvisaglie a favore di un ritorno a politiche di austerità
È stato però nei primi giorni di giugno che il castello di informazioni rassicuranti è crollato in maniera fragorosa. «L’Italia presenta squilibri eccessivi»: questo è stato l’incipit con cui si sono aperte le considerazioni di primavera che la Commissione europea ha steso per il Belpaese.
Il refrain è il solito: le finanze pubbliche tricolori sono da decenni sotto osservazione da parte dei mercati internazionali e delle istituzioni europee. Il debito pubblico è allo stesso tempo l’osservato speciale e la scusa per imporre politiche di austerità a carico delle masse lavoratrici.
Che il debito tricolore sia da anni fuori controllo è senza dubbio vero. Altrettanto vero è che la pandemia e la crisi economica (che ricordiamo si stava palesando ben prima che il Covid 19 monopolizzasse l’attenzione pubblica a livello planetario) ne hanno aumentato in maniera esponenziale il peso in rapporto al Pil (circa il 160%). Tuttavia il responsabile della sua enorme crescita non è quello che i mass media di regime vogliono farci credere.
Per decenni l’Italia ha avuto un avanzo primario di bilancio (entrate superiori alle uscite prima del pagamento degli interessi sul debito pubblico). Nessuno altro Paese nel Vecchio Continente ha avuto una simile «disciplina» nei conti.
Perché quindi il debito ha continuato a crescere? Una risposta la possiamo trovare se guardiamo il comportamento dei maggiori istituti finanziari del Paese. Per anni banche e assicurazioni hanno gonfiato i loro bilanci speculando sulla differenza tra le somme prese a prestito dalla Banca Centrale Europea a tassi negativi e investite sui titoli di Stato emessi dal governo nazionale. Non quindi l’eccesso di generosità a favore dello stato sociale, che al contrario negli anni veniva pesantemente falcidiato, ma la speculazione finanziaria ha fatto sì che il debito pubblico si espandesse in maniera incontrollata.
Nell’anno della pandemia le somme stanziate a favore delle grandi imprese di cui abbiamo parlato all’inizio hanno fatto il resto. L’Unione europea quindi comincia a preparare il terreno per nuove politiche di austerità e di sacrifici a danno delle classi popolari. Certo, al momento assistiamo a tentativi per sminuire questo pericolo da parte dei ministri dell’esecutivo Draghi. Voci rassicuranti sostengono che per tutto il 2021 e il 2022 i vincoli imposti dai trattati europei verranno sospesi, e che comunque a partire dal 2023 non verranno imposte misure draconiane come quelle varate dal governo Monti-Fornero nel 2011.
È probabile che le cose vadano in questo senso. Tutte le nazioni europee hanno subito i colpi della crisi e visto le loro finanze peggiorare. Politiche finanziarie non troppo severe potrebbero convenire anche ai custodi dell’ortodossia fiscale.
Altri fattori influiranno sulle scelte. Molti prevedono, sarebbe meglio dire sperano, che l’economia possa entrare in una nuova epoca di crescita sostenuta. A queste attese ottimistiche ha indirettamente risposto l’Ufficio Pubblico di Bilancio statunitense, che ha previsto per il decennio in corso una crescita media inferiore al 2%. (1)
Se questo è il trend di crescita per la maggiore potenza economica del pianeta, pare difficile che sia proprio l’economia italiana a rappresentare un fattore di contro tendenza positiva, cioè con una crescita che possa non rendere necessarie politiche fiscali rigoriste.
L’incognita della lotta di classe
Altro fattore determinante sarà lo sviluppo della lotta di classe. Se nel Paese continueremo ad assistere a lotte importanti, come quella dei lavoratori Alitalia, ma non a esplosioni di ribellione sociale generalizzata come abbiamo visto in questi mesi in Cile e da ultimo in Colombia, è probabile che i padroni e i loro governi si sentano abbastanza sicuri di poter imporre sacrifici via via più duri.
Su una cosa possiamo essere sicuri: anche nella più ottimista delle opzioni, le condizioni di vita di milioni di lavoratori continueranno a peggiorare come è avvenuto negli ultimi decenni.
Le pensioni, i salari, la sanità, la scuola e tutto quanto riguarda lo stato sociale verrà ridotto, in maniera più o meno ampia, per cercare di garantire a poche imprese capitaliste di continuare a ottenere profitti, e per far pagare il prezzo della crisi ai lavoratori.
A meno che, nel pieno della crisi economico pandemica, non si affacci una nuova «variante»: quella della ascesa delle lotte, dell’alternativa rivoluzionaria e comunista ai disastri che un mondo basato sul profitto vuole continuare a infliggere alla maggioranza dell’umanità, in Italia e non solo.
Note
1) M. Roberts, Some notes on world economy now, 14 maggio 2021.