Tibet
LA GIUSTA LOTTA PER L'AUTODETERMINAZIONE
DA SOTTRARRE ALLE GRINFIE DELL'IMPERIALISMO
di Enrica Franco
Lo scorso 10 marzo un centinaio di religiosi tibetani hanno intrapreso una marcia che da Dharamsala, città nel nord dell'India che ospita il governo buddista in esilio, avrebbe dovuto portarli nell'agosto prossimo fino a Pechino in concomitanza con l'inizio delle Olimpiadi. Altre manifestazioni si svolgevano a Lhasa, in Tibet, come ogni anno in occasione della ricorrenza della fuga del Dalai Lama nel 1959.
Le manovre dell'imperialismo dietro una giusta lotta
Lo scorso giugno a New Delhi, in India, si è tenuta una conferenza degli "amici del Tibet" dalla quale è stato emanato un appello affinché si sfruttasse l'occasione delle Olimpiadi per lanciare l'offensiva dei separatisti. A gennaio è nato il "Movimento di Rivolta del Popolo Tibetano" che ha rilanciato la data del 10 marzo come inizio della rivolta. Durante questi preparativi si sono susseguite le visite di personaggi statunitensi presso il quartier generale del governo tibetano esiliato in India, in particolare della sottosegretario di Stato Paula Dobriansky, che aveva preparato le "rivoluzioni colorate" in Europa orientale.
I legami tra gli Usa e il
Tibet risalgono al 1955, quando la Cia iniziò a costruire un esercito
controrivoluzionario in Tibet, molto simile ai Contras in Nicaragua e, più
recentemente, al finanziamento ed addestramento dell'Uck in Kosovo. La Cia ha
anche sempre sostenuto e sovvenzionato il Dalai Lama e la sua cricca,
aiutandolo a costituire un governo in esilio.
Con l'attacco del 1959 gli
Usa tentarono di indebolire la rivoluzione cinese e allo stesso tempo di legare
il popolo del Tibet ai propri interessi imperialisti. Oggi, proprio come nei
Balcani e nella ex Unione Sovietica, gli statunitensi incoraggiano i
separatisti per controllare completamente le aree del globo ancora fuori dal
loro dominio.
Nonostante questo, George
Bush, così come gli altri leader occidentali, non ha potuto schierarsi
apertamente dalla parte dei rivoltosi. Gli Stati Uniti stanno vivendo in questo
momento una gravissima recessione e fanno affidamento proprio sulle riserve
valutarie di Pechino (che detiene la quota maggiore del debito estero
americano) per finanziare il loro deficit, nonché sulla capacità della Cina di
assorbire le esportazioni mondiali. Il teatrino sul
boicottaggio delle Olimpiadi appare come l'unica possibilità per mantenere vivo
l'interesse su una futuribile indipendenza tibetana.
La direzione reazionaria del Dalai Lama
L'obiettivo dell'autodeterminazione
e dell'indipendenza è da sostenere. Non sono da sostenere, invece, le direzioni
attuali del movimento. Il Dalai Lama ha dichiarato di non condividere le
richieste di indipendenza né le proteste violente, per lui sarebbe sufficiente
una maggiore "autonomia", anche se non rinuncia a definirsi capo di
un governo in esilio.
Il Tibet è già una regione
autonoma dove si insegna e si parla la lingua del luogo, la differenza abissale
rispetto al Tibet antico in cui governavano i Lama sta nel fatto che ora non
esistono più le caste, la schiavitù e la servitù. Il mitico Tibet, raccontato
in Occidente come una terra paradisiaca nella quale, prima della rivoluzione,
ogni persona viveva in pace con se stessa e con il mondo, era in realtà una
regione feudale, dove ovviamente esisteva la violenza e i reati venivano puniti
con la tortura. Il Dalai Lama, così osannato dalla sinistra italiana, non ha
mai rinnegato questo passato ma ne è anzi il diretto prosecutore. Oltre alle
non chiare richieste di autonomia o indipendenza, nei vari blog degli "amici del Tibet" ci si imbatte in vaneggiamenti
riguardanti la chiusura delle frontiere con la Cina, in quanto l'immigrazione
cinese starebbe progressivamente imbarbarendo la "sacra" stirpe tibetana!
Una prospettiva socialista
Non vogliamo con questo ridicolizzare
una protesta di popolo che sicuramente affonda le sue radici nel malcontento
generale di tibetani e cinesi, ma ad oggi il movimento sembra succube di un gruppo
separatista dai contorni per lo meno torbidi.
La strada imboccata attualmente
dai rivoltosi è sicuramente senza uscita, per una effettiva liberazione del
popolo tibetano e di tutto il popolo cinese non ci si può affidare ad una
cricca di religiosi, che dietro la retorica nonviolenta nascondono i loro più
bassi interessi materiali, l'unica strada per una reale emancipazione del
popolo tibetano passa invece per una lotta per l'indipendenza condotta nella
più completa autonomia dall'imperialismo e dai suoi agenti locali. Una lotta
che deve vedere legate le masse popolari sulla base di una prospettiva
socialista.