Partito di Alternativa Comunista

Perù: la seconda ondata vuole la testa di Boluarte

Perù: la seconda ondata vuole la testa di Boluarte

 

 

 

di Simon Lazara (Pst Perù)

 

 

 

Continua senza sosta la mobilitazione di massa in Perù, che vede tra i protagonisti anche i nostri compagni del Pst (sezione della Lit-Quarta Internazionale). Il 19 gennaio è stata una grande giornata di scioperi e mobilitazioni: decine di migliaia di persone hanno attraversato le strade del Paese, concentrandosi in particolare nella capitale Lima (qui la cronaca della giornata: litci.org/es/la-jornada-del-19-de-enero-en-peru). Le manifestazioni sono state represse con lacrimogeni e spari ad altezza d’uomo: ultimo atto di una repressione che in poco più di 40 giorni ha portato alla morte di 50 manifestanti (almeno 800 i feriti) e all’arresto di 370 persone. Per questo, la Lit-Cuarta internazionale ha lanciato una campagna internazionale in solidarietà con la lotta delle masse popolari peruviane (1). Pubblichiamo qui un articolo dei nostri compagni peruviani che analizza i fatti di queste settimane (la redazione web).

 

Come in ogni seconda ondata che si produce nelle lunghe battaglie – come quella che si vive in Perù contro il regime ora guidato da Boluarte – quella in corso è ancora più radicale, decisiva e, purtroppo, sanguinosa. E non avrà un esito positivo senza la sconfitta del regime.
Solo il 9 gennaio, al quinto giorno dopo la ripresa della protesta, il conflitto ha lasciato sul terreno 17 morti e mezzo centinaio feriti gravi a Juliaca (sud peruviano e confine con la Bolivia), tutti per i proiettili sparati dalle truppe schierate sul posto.
È il più elevato bilancio di morti inferto dalla repressione dei movimenti sociali del nuovo secolo, un bilancio che è arrivato a una cinquantina da che in dicembre hanno avuto inizio le proteste dopo la destituzione di Pedro Castillo.
In pratica, si vive uno stato di occupazione nelle zone di conflitto da parte delle forze di polizia e militari, si è posti in stato di emergenza e repressi con armi da guerra, con lacrimogeni lanciati dagli elicotteri e con colpi di arma da fuoco verso coloro che vanno a portare aiuto alle vittime, in maggioranza giovani. E il governo annuncia che non farà passi indietro nella sua decisione di ristabilire «l’ordine» e, su questa linea, rinforza i propri effettivi nella zona nello stesso tempo in cui stabilisce il coprifuoco.
Tuttavia, anziché placare la protesta, l’unico risultato che ha ottenuto è stato di gettare benzina sull’incendio. Mentre piangono i propri morti, le masse popolari della città di Puno - e con esse tutta la povera gente del Paese - sentono che è stata loro dichiarata guerra e si preparano a combattere la battaglia finale per abbattere il governo responsabile di questo massacro.
Intanto, anche tra i feriti e i morti si mostra la divisione di classe. Mentre gli abitanti di Puno si uniscono, mettono insieme le proprie monete per aiutare le famiglie dei caduti, assistono i propri feriti con quello che hanno in mano e rendono omaggio ai propri eroi nelle strade che tengono in pugno, negli ambienti ufficiali si parla e si omaggia soltanto il poliziotto rimasto vittima nello scontro.
Come si spiega questa situazione? Quali sono le condizioni che ci hanno portato ad un simile scontro, molto vicino ad una forma di guerra civile?

 

Boluarte: dalla sinistra a un governo di destra

Non stiamo affrontando una dittatura militare, né fascista, né una reazione civile-militare come fu quella che impose Fujimori nel 1992. Abbiamo di fronte un governo precario guidato da Dina Boluarte, salita al potere nella sua qualità di vicepresidentessa eletta con la medesima «formula» di sinistra di Pedro Castillo (dopo l’uscita di scena di quest’ultimo) e il tutto con l’appoggio del Congresso (il Parlamento locale, ndt).
Il governo e i disordini sociali in corso sono il prodotto di una situazione particolare che ha creato una congiuntura sui generis. Boluarte ha assunto il ruolo presidenziale il 7 di dicembre, non come prodotto di un golpe reazionario nello stile di Jeanine Añez in Bolivia, nel 2019, come avrebbe voluto fare la destra. Lo ha assunto attraverso una mediazione - o un piano di transizione - promosso da settori sociali di destra in alleanza con il centro politico e la complicità della sinistra ufficiale, con il progetto di ristabilire la governabilità padronale.
Il piano reazionario per espellere Castillo e la sua vicepresidentessa al fine di collocare un governo completamente di destra si è rivelato impraticabile, non solo per l’assenza di sufficienti voti (87), ma anche per il forte sostegno che generava il presidente nei settori più poveri del Paese e in quelli di tradizione più combattiva, come il sud andino.
Però per il 7 di dicembre si sono create le condizioni per tentare il colpo. Nel mezzo delle crescenti denunce di corruzione e dopo il suo allontanamento da Perú Libre – il partito che lo ha portato al potere – Castillo non poteva più contare sulla sicurezza dei suoi voti. Inoltre, era evidente a tutti l’allontanamento della sua vicepresidentessa, che trattava con le banche di destra con l’avallo di Perú Libre, per scongiurare una richiesta di interdizione, preparandosi così una strada spedita per prendersi le redini dello Stato, nel caso Castillo fosse caduto.
La ciliegina sulla torta l’ha messa lo stesso Castillo. In un atto a prima vista poco comprensibile, ha annunciato un fallimentare colpo di Stato (2) che non solo ha offerto una giustificazione alla sua destituzione, ma lo ha anche portato in prigione, dove è stato recluso con l’accusa di ribellione. Perú Libre e Juntos por el Perú hanno votato a favore della sua destituzione, con alcune eccezioni e l’astensione o l’assenza di altri, rivelando che c’erano alcuni accordi o convergenze di questi settori con la destra per mantenere una continuità post-Castillo che assicurasse loro quote di potere e, soprattutto, i loro seggi fino al compimento del mandato. La nuova presidentessa è stata molto chiara ed enfatica su questo implicito accordo quando ha prestato giuramento: «giuro fino al 2026», ha detto, mentre tutti i parlamentari l’applaudivano dai banchi e si facevano selfie tra una congratulazione e l’altra.
Per la destra, Dina Boluarte era una specie di male minore, solo perché avrebbe raggiunto i voti necessari essendo eletta con l’appoggio di almeno un settore di Perú Libre. Dall’altra parte, l’illusione di alcuni sulla possibilità che questo fosse un nuovo governo di «sinistra» si è resa evidente con l’aperto appoggio di alcuni settori al di fuori della maggioranza ufficiale, come Patria Roja (partito comunista di origine stalinista che si appoggia su movimenti sociali, ndt). La stessa Confederazione generale dei lavoratori (Cgtp) si è detta disponibile a dialogare con Boluarte, approvando il suo appello a un governo di «conciliazione». Quel che è certo è che, nei fatti, il punto di appoggio di Boluarte era la maggioranza di destra del Congresso col sostegno dei suoi media. Questo spiega perché, davanti all’ondata di proteste che è iniziata lo stesso giorno in cui si è installata la nuova presidenza - ondata che è andata crescendo – la risposta è stata orientata da tale settore di destra.
Il fattore dinamico in tutto questo processo è stato l’entrata in scena delle masse popolari. Dal loro punto di vista, soprattutto dal punto di vista delle popolazioni del sud andino, più fedeli incondizionatamente a Castillo per attaccamento alla sua origine e identità, c’è stato altro film: c’è stato «un golpe» incoraggiato dalla destra e dai suoi media e si è vista la Boluarte come una traditrice, usurpatrice e marionetta di quegli stessi settori che hanno sempre e solo vomitato odio contro di loro. E sono scesi in strada per protestare. Nessuno o pochi se lo aspettavano. Sebbene quegli stessi media accusino Perú Libre e Bloque Magisterial di istigare le proteste, la verità è che i loro parlamentari hanno dovuto nascondere la mano che aveva votato a favore della destituzione di Castillo e cambiare posizione.
La reazione di questi settori era naturale, però c’era il rischio che con il passare dei giorni potesse svanire se il governo avesse messo in campo una politica efficace centrata sulla concertazione, sul dialogo e soprattutto sul soddisfacimento delle rivendicazioni più sentite. Ma aspettarsi questo da un governo sostenuto dalla destra sarebbe illusorio: la risposta di quest’ultimo è stata particolarmente reazionaria. La Boluarte, che nel suo primo discorso si era presentata con un volto di mediazione, si è rivelata come un fantoccio delle ali più reazionarie del Congresso, delle forze armate e dei padroni e ha legittimato i discorsi contro il terrorismo e la violenza che la destra aveva diramato durante la gestione di Castillo, ora usati contro le mobilitazioni; e ha rivolto contro queste una repressione feroce.
Lo stesso Otárola (allora ministro della difesa, ndt) è stato molto chiaro sotto questo aspetto: da parte del governo (e della destra) si vedono le attuali proteste come «postumi» del governo di Castillo, che viene associato al terrorismo e alla sinistra marxista e, dopo averlo mandato via, ora vedono la necessità di sconfiggere le sue basi d’appoggio. Gli unici «postumi» sono i fantasmi costruito dalla borghesia in questi due anni.
Così è stato ordinato di sparare. Nelle giornate di dicembre, ad Ayacucho, sono state assassinate 11 persone in una sola volta e altre 18 sono cadute in altri punti del Paese. L’agenzia Reuters ha filmato il modo in cui si è sparato impunemente contro un giovane che aiutava un ferito. I discorsi reazionari e le morti hanno solo aizzato la collera. La lotta è stata rinviata durante le festività anche per la necessità di riorganizzarsi ed è stata rilanciata a partire dal 4 di gennaio, con la convocazione dello sciopero a oltranza da parte di una serie di organizzazioni di base delle regioni del sud. La risposta del governo è stata fare un ulteriore passo a destra: Alberto Otárola, ministro della difesa e responsabile diretto del massacro di dicembre, è salito alla carica di primo ministro.
Così, si sono create le condizioni per uno scontro maggiore, che ha prodotto il nuovo massacro a Juliaca. Da una parte abbiamo la Boluarte che si comporta come un fantoccio che balbetta cose incoerenti e non capisce nulla di ciò che sta accadendo, dall’altro lato c’è la deriva reazionaria, dove chi comanda è il primo ministro che realmente dirige l’orchestra con il beneplacito della destra, dei media e della Confiep (L’associazione degli industriali, ndt), che credono di star ingaggiando la madre di tutte le battaglie contro la sovversione. Dall’altra parte, abbiamo un movimento di massa guidato dal campo meridionale, infiammato e determinato contro il disastroso marciume del regime e contro la strage di cui è responsabile.

 

Azione di «terroristi» o lotta di massa?

La polarizzazione che si sta vivendo in Perù emerge dal discorso ufficiale propinato da tutti i media: le proteste – si dice – sono causate da terroristi, sovversivi e hanno il finanziamento del narcotraffico e di settori mafiosi che controllano le miniere; e le azioni violente, quando si manifestano, sarebbero la prova di questo intervento. La verità è che questa narrazione viene da prima dell’elezione di Castillo e ora ha guadagnato ufficialità. È una narrazione ultrareazionaria che nasconde una verità: tutti costoro (inclusi quelli che vengono chiamati «sovversivi» o «mafiosi») durante il governo di Castillo si sono accodati al regime, hanno collaborato con la borghesia e hanno abbandonato la piazza insieme col loro programma.
Certamente, alcuni di questi settori vedendosi strappare di mano il potere - o parti di esso – partecipano alla lotta attuale, però sono lontani dal dirigerla poiché hanno perduto credibilità. E non c’è dubbio che i pescatori possano trarre vantaggio da un fiume agitato. Tuttavia, il carattere popolare auto-organizzato e auto-convocato della lotta è fuori di ogni dubbio.
Ci sono gruppi di avanguardia come in ogni lotta. Però la lotta è promossa e sostenuta da organismi di base, come le comunità contadine, che democraticamente hanno deciso di combattere. Intere comunità si organizzano e marciano disciplinate dai loro paesi lontani verso i centri urbani dell’interno. Solo a Puno 20mila residenti delle comunità Aymara si sono spostati in città.
E la «violenza» è di massa ed è il prodotto della rabbia che viene alimentata dai modi in cui si risponde alle proteste. Si accusano di vandalismo coloro che cercavano di occupare l’aeroporto di Puno, il che è stato il pretesto per l’ordine di sparare ad altezza d’uomo. Però quei «vandali» erano 2000. E i caduti ora non sono trattati come delinquenti ma come eroi dalle decine di migliaia di coloro che li piangono e li omaggiano a Puno.
La ribellione iniziata a dicembre, che ora è al suo secondo atto, si è caratterizzata per radicalità e violenza. Locali pubblici e alcune sedi commerciali sono stati bruciati e saccheggiati. Alcuni aeroporti sono stati occupati. Ci sono scontri con la polizia. Tutto ciò comporta livelli minimi di coordinamento e di armamento artigianale, come mortaretti e alcune altre forme di «autodifesa».
Tutto questo, visto dalla prospettiva di coloro che sostengono che lo Stato debba avere il monopolio delle armi e l’uso della violenza, serve da pretesto per dire che saremmo davanti ad una escalation diretta da terroristi che minacciano la «democrazia», rimettendo in auge le paure alimentate da Sendero Luminoso negli anni Ottanta che, a loro dire, giustificherebbe la sanguinosa repressione.
In definitiva, non siamo davanti ad atti «violenti» isolati portati avanti da gruppi minoritari, men che meno da «terroristi», bensì siamo di fronte a una lotta di massa con caratteristiche radicali, che si spiegano, in primo luogo, con la condizione sociale di quelli che lottano, costituita soprattutto da contadini e abitanti delle località più povere dell’interno del Paese che sempre, o generalmente, si esprimono con questi mezzi. Inoltre, però, questa violenza ha a che vedere anche con quelli che la producono: quello che è successo a Juliaca è uno straripamento provocato dall’incessante campagna ufficiale che li addita come violenti, terroristi e finanziati dal narcotraffico, che non è altro che una reiterazione dell’eterna discriminazione e non considerazione che soffrono, in particolare, i poveri delle campagne.

 

Cecità della classe dominante

La logica perversa della classe dominante e della sua ideologia si spiega per la sua assoluta incapacità di intendere la crisi attuale. Non parliamo dei portavoce di destra di ispirazione fascista, ma della loro coscienza critica espressa dalla stampa (e dall’intellighenzia) chiamata progressista come il quotidiano La República. Il suo editorialista dice: quello che è successo a Puno deve essere investigato dalla Procura, per capire se ci siano stati degli eccessi da parte delle forze dell’ordine o dei manifestanti, perché non è legittimo tentare di occupare l’aeroporto (Álvarez Rodrich, 10.01.23). Di conseguenza… sarebbe legittimo sparare a coloro che tentano di farlo.
Sulla stessa linea, un altro giornalista d’inchiesta, riconosciuto per la sua serietà ed equilibrio, parla di morti «ingiustificati» tra i manifestanti… implicitamente affermando che potrebbero esserci delle morti giuste (R. Uceda, 01.08.23).
Come è possibile che qui si giustifichino morte e omicidi quando si tratta di difendere «l’ordine», mentre in Brasile si sta verificando qualcosa di molto più grave, come l’assalto alle sedi del governo e del Parlamento da parte di migliaia di avventati bolsonaristi senza che ci sia stato un solo morto?
La cosa certa è che, dietro lo squallido neoliberismo esaltato negli ultimi trent’anni, è stata costruita anche un’ideologia reazionaria che non ammette nemmeno mediazioni e riforme rispetto a quel modello, e che è dominante nell’élite e nei settori medi. Per questo l’attuale narrazione ufficiale del governo è stata costruita dalla destra: una narrazione che chiama all’unità a «difesa» della democrazia e delle istituzioni, contro quello che considerano un sovvertimento dell’ordine, che sarebbe stato avviato e istigato da Castillo durante il suo governo. Dall’altro campo, quello delle masse in lotta, quel che si reclama e a cui si aspira sono cambiamenti democratici, profondi e reali che modifichino e migliorino le loro vite.

 

L’elezione e il governo di Castillo

Di fatto, questa reazione popolare con le sue caratteristiche radicali ha a che fare con la percezione delle masse di quello che è avvenuto con Castillo.
Il regime - ossia questo piano economico e il quadro istituzionale attuati dal ritorno alla democrazia dopo la caduta di Fujimori - è stato messo radicalmente in discussione per la prima volta con il risultato elettorale che ha posto alla presidenza Pedro Castillo nel 2021. Castillo era un insegnante di campagna proveniente da una delle località più povere del Paese ed è stato eletto con un programma e un partito di orientamento castro-chavista.
Non dimentichiamolo: l’economia nazionale è una delle più neoliberali del continente, il che le ha permesso di conoscere un decennio di rapida crescita che ha arricchito un élite ed ha nutrito una numerosa classe media, mentre grondava di miserie per la maggioranza. Il modello è stato applicato consegnando grandi risorse naturali alle multinazionali ed è avanzato di pari passo con la corruzione che ha coinvolto tutti coloro che governavano, di destra e di sinistra, creando una tale disaffezione verso tutti i partiti che alcuni accademici parlano e scrivono di «Democrazia senza partiti» (M. Tanaka) o di «democrazia con instabilità cronica».
La totale instabilità sarebbe iniziata nel 2016, con il governo del banchiere Pedro Pablo Kuczynski (Ppk), che è stato costretto a rinunciare al mandato, fatto seguito da altri episodi sempre più drammatici, come il golpe parlamentare del 2020 e la ribellione che ha rovesciato Merino, fino all’elezione di Castillo, nel giugno 2021. Questa stessa elezione è stata espressione di questa crisi, perché il suo partito e la sua candidatura erano assolutamente improvvisati.
L’elezione di Castillo ha espresso la ricerca da parte della maggioranza di una via d’uscita dall’emergenza vissuta dopo un’atroce pandemia, elezione che si è potuta realizzare soltanto in quelle circostanze straordinarie di grave crisi istituzionale e di assenza di solida rappresentazione politica della borghesia. Però è stata una vittoria importante festeggiata dalle maggioranze più povere, dato che è stata la prima volta che hanno prevalso alle urne un governo di «sinistra» con un presidente di origine contadina.
L’elezione di Castillo è apparsa come una mosca nella zuppa succulenta di cui si cibavano le classi dominanti fino ad allora, anche in condizioni di crisi istituzionale. Non era accettabile. Tanto più in quanto è stato il risultato del voto e non di un mutamento dei rapporti di forza nel campo della lotta di classe. Inoltre, dopo il rifluire della pandemia, la borghesia aveva sete di recuperare profitti, e ben ci è riuscita, ma era insoddisfatta in relazione alle sue aspettative, perché il governo non l’accompagnava – né poteva farlo – con mezzi che sostenessero le imprese. Per questo ha scatenato tutto il suo odio attraverso i suoi portavoce di destra e con l’appoggio della grande stampa concentrata in un settore (El Comercio). Hanno fustigato Castillo e i suoi soci fin da prima che fosse eletto e non gli hanno dato un minuto di tregua. Castillo ha fatto la sua parte formando un governo completamente incompetente, cambiando ministri ogni volta e ripartendo gli incarichi tra i suoi sodali, ognuno con più ambizioni personali dell’altro, mentre i suoi soci di «sinistra» si disputavano quote della pubblica amministrazione anche per arricchirsi tramite essa. Allo stesso tempo, gli uni e gli altri hanno archiviato i loro programmi e le promesse della campagna elettorale per accordarsi con la borghesia e rendersi funzionali all’ordine che dicevano di combattere.
Castillo ha riposto nell’armadio i suoi vestiti originari, incluso il suo sombrero chotano, e ha iniziato a indossare un abito splendente con la cravatta, mostrando la propria intenzione di farsi funzionale alla borghesia sia nel contenuto che nella forma.
Allo stesso tempo, il governo di Castillo non ha adempiuto alle proprie promesse di campagna elettorale per adattarsi al piano neoliberista e non ha fatto nulla per contrastare l’inflazione e la crisi alimentare che hanno colpito l’economia popolare per tutto l’anno 2022. Non ha toccato i grandi interessi e ha lasciato correre la crisi facendola pagare ai lavoratori e ai più poveri, cioè quelli che lo hanno sostenuto. E questi sono stati smobilitati con la collaborazione delle loro direzioni, con il discorso che non ci fosse altra via d’uscita e che la principale minaccia fossero gli attacchi della destra.
La paralisi del movimento delle masse ha regalato tutta l’iniziativa alla destra che si è impossessata dei media e ha guadagnato a sé settori sempre più ampi della classe media per la sua narrazione reazionaria. Così ha ottenuto una prima vittoria, per quanto di Pirro, nelle elezioni municipali locali di novembre, nelle quali ha eletto a Lima Rafel López Aliaga, il suo portavoce più reazionario. Da qui, ha cominciato a presentare molteplici denunce di corruzione a Castillo e al suo entourage, come argomento principale per concentrare le forze a favore della sua defenestrazione.

 

La corruzione e l’appoggio popolare di Castillo

Castillo è stato seguito e indagato dal primo giorno, persino in relazione a ciò che mangiava, per trovare indizi di corruzione. Non ci si poteva aspettare altro. E sono stati trovati casi. La Procura ha aperto 6 fascicoli di indagine per associazione a delinquere, associazione illecita e altri reati. All’inizio tutto sembrava una bugia ordita dai suoi nemici e pochi hanno dato credito alle accuse. Ma fra i membri del suo entourage indagati, alcuni si sono nascosti e sono fuggiti dal Paese, altri, come il suo segretario e il sottosegretario, hanno cominciato a tradirlo per ricevere il beneficio della «collaborazione nelle indagini», mostrando una vera rete di ripartizione di favori e benefici pecuniari a spese dello Stato, fatti che ancora devono essere verificati. Ma una rete che, comparata a quella degli ex presidenti corrotti (l’ex presidente Toledo ha intascato con un solo bando 20 milioni di dollari), equivale a noccioline, anche se di corruzione in fin dei conti si tratta.
Tutto questo è stato utilizzato dai politici di destra e dai media per screditare, isolare e preparare scrupolosamente la destituzione di Castillo. Così, il chotano (soprannome di Castillo, ndt) è arrivato molto precario a dicembre, quando ha dovuto affrontare una nuova mozione di sfiducia. Però il suo appoggio tra i lavoratori e, soprattutto, tra i settori più impoveriti, si è mantenuto saldo: i sondaggi gli conferivano il 30% di consensi e, nelle zone rurali, era superiore al 40%. Un appoggio che è parso inspiegabile all’élite che si era data anima e corpo a denunce e scoperte contro il governo.
Perché quel 30% ha mantenuto il suo appoggio a Castillo nonostante la sua convivenza con il regime, la sua incompetenza e i dubbi che hanno sollevato le numerose accuse di corruzione? Per la borghesia è un mistero. La verità è che quel 30%, che lo ha sostenuto contro ogni previsione, da tempo si era immunizzato contro il discorso reazionario e gli atti della destra e dei suoi media, tutti di odio e intolleranza nei confronti di Castillo e dei suoi seguaci; ed era stato alimentato da lui stesso, che continuava a incarnare la speranza di un futuro migliore. Si tratta del settore storicamente più emarginato, sfruttato e oppresso del Paese, che ha creduto di realizzare, a un certo punto, la sua speranza di cambiamento con l’elezione di uno dei suoi.
Così, il «posto vacante» si è realizzato nelle condizioni più favorevoli che i suoi istigatori potessero immaginare, ma ciechi di fronte a questa realtà profonda.
Al Congresso, 102 di tutti i deputati hanno votato a favore e solo 6 hanno votato contro; Castillo era stato abbandonato anche dai suoi più cari amici. Tutti i voluminosi fascicoli di denunce contro di lui - e che erano discutibili per una richiesta di destituzione – si sono risolti in nulla di fatto dopo il fallito atto di Castillo. Secondo la Costituzione, la chiusura del Congresso da parte del presidente significa «posto vacante». Così tutto è stato «costituzionale» e «legale». Anche l’Organización de los Estados Americanos (Oea), che era stata convocata dallo stesso Castillo invocando la Carta Democratica, si è dovuta pronunciare contro l’esistenza di un golpe e riconoscere la successione «legale e costituzionale» deliberata dal Congresso (cioè la nomina di Boluarte, ndt).

 

Il piano della borghesia

Il piano iniziale con la nomina di Boluarte era di costruire un governo di «transizione». Transitorio, ma non nel senso che reclamano le masse, che è di indire presto nuove elezioni, ma nel senso borghese di ristabilire le condizioni di normalità istituzionale precedenti a Castillo. Le giornate di dicembre hanno inferto un contraccolpo a questo piano, costringendo ad accorciare la scadenza - che doveva estendersi fino al 2026 - ad aprile 2024, data che si sta proponendo per le elezioni. Al di là dell’ansia di aggrapparsi alle cariche, quello che esiste qui è l’obiettivo di realizzare cambiamenti istituzionali e riforme che permettano di garantire le condizioni per un rinnovamento del potere borghese e la sua stabilità a partire da quell’anno, e scongiurare così una riedizione dell’esperienza avvenuta con Castillo.
Così, i democratici più illusi credono che con alcune riforme il sistema possa essere riscattato, mentre la destra pretende di andare oltre, come cambiare gli attuali membri degli organismi elettorali per poterli manipolare e, ove opportuno, agire contro tale eventualità. In ogni caso, tutti riconoscono che indire immediatamente nuove elezioni equivale a prolungare o estendere la crisi attuale.
Dietro il ripristino dell’ordine, quello che si cerca in essenza è preservare la continuità del modello economico neoliberista, posto al centro di tutte le questioni in questi anni di crisi, per continuare a saccheggiare il Paese e sfruttare le maggioranze operaie e popolari. In questo modo, cade sotto il suo stesso peso la narrazione democratica con cui oggi si pretende giustificare gli spari contro la popolazione in lotta, chiamata «turba». È esattamente il contrario: i contadini e i poveri che oggi combattono con coraggio dal profondo del Paese lo fanno con bandiere autenticamente democratiche. Chiedono che Boluarte se ne vada per la sua responsabilità nei crimini che hanno causato quasi 50 morti. Che se ne vada il Congresso perché pensano che al 90% sia reazionario e corrotto. Che si proceda con le elezioni. E che si convochi un’Assemblea costituente per rimpiazzare la Costituzione della dittatura.
Per il grado di polarità e scontro, e a causa dei nemici che si devono affrontare, queste bandiere democratiche acquisiscono un carattere transitorio mettendo in discussione lo stesso ordine capitalista. Per questo, come Pst, facciamo propaganda per una via d’uscita reale e duratura, cioè un governo dei lavoratori e dei poveri delle campagne.

 

  1. Trovate qui gli articoli sul tema repressione: https://litci.org/es/por-una-campana-internacional-de-solidaridad-con-la-lucha-del-pueblo-peruano-alto-a-la-represion-del-gobierno-de-boluarte-y-el-congreso/

 

https://litci.org/es/peru-quienes-son-los-violentos-y-por-que-tenemos-derecho-a-la-autodefensa/

 

  1. Si vedano gli articoli già pubblicati sul nostro sito: www.partitodialternativacomunista.org/politica/internazionale/la-fine-del-governo-castillo-e-l-urgenza-di-costruire-un-azione-operaia-indipendente

 

https://www.partitodialternativacomunista.org/politica/internazionale/peru-que-se-vayan-todos-viva-la-ribellione-operaia-e-popolare

 

 

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