Recentemente, è stato reso noto che lo Stato cubano sta per licenziare 500 mila lavoratori (il 10% della forza lavorativa del Paese): questa misura fa parte di una manovra di adeguamento molto più profonda.
Per il governo cubano e i suoi difensori nazionali ed internazionali queste misure sono presentate come una necessità per “difendere” e “modernizzare il socialismo”, adeguandolo alle attuali condizioni economiche e politiche internazionali. Al contrario, l’unica spiegazione reale è che questi provvedimenti sono l’inevitabile conseguenza del fatto che il capitalismo è già stato restaurato a Cuba e possono essere compresi in questo quadro soltanto come la risposta di un governo capitalista all’attuale crisi economica internazionale, e cubana in particolare.
Il licenziamento di mezzo milione di lavoratori integra una manovra di adeguamento molto più globale e continuativa: alla cifra iniziale si aggiungerà un numero uguale di licenziamenti nei prossimi cinque anni. In altri termini, lo Stato cubano sta per licenziare il 20% della forza lavoro del Paese.
Quale sarà il destino dei lavoratori statali prossimamente licenziati? A Cuba non c’è l’indennità di disoccupazione. Secondo la propaganda ufficiale si tratta di “ricollocarli in altri settori”, vale a dire nell’economia privata.
Allo stesso tempo, vengono liberalizzate 178 nuove attività o professioni per realizzare lavori autonomi o per conto proprio (Tcp), di cui circa la metà sarà autorizzato ad assumere dipendenti.
Lo stesso giornale ufficiale Granma stima che circa 250 mila persone dovranno sistemarsi come Tcp (1) e l’altra metà dovrà ricollocarsi in cooperative formate dai licenziati (come quelle già esistenti nel settore dei taxi e degli istituti di bellezza) o direttamente in attività private.
Come indica l’esperienza di altri Paesi, gran parte di questi lavoratori in proprio e cooperative falliranno in un termine più o meno breve; ciò che è riconosciuto anche da un documento interno del partito comunista cubano: “molti possono fallire prima della fine dell’anno” (Clarín, 15/9/2010). In altre parole, la maggioranza passerà a ingrossare la massa di sfruttati delle imprese private o si aggiungerà ai 400 mila lavoratori disoccupati già esistenti, ampliando così quello che Marx definiva “esercito industriale di riserva”.
Altre misure di adeguamento sono la chiusura delle mense popolari sovvenzionate e la fine della tessera annonaria (con cui possono essere acquistati a prezzi molto bassi prodotti alimentari di base), un componente molto importante nel paniere dei settori più poveri.
A ciò si aggiunge il recente annuncio che l’istruzione e la sanità pubbliche non saranno più universalmente gratuite e che si inizierà a pagare “un contributo totale o parziale” per questi servizi. Come altri governi capitalisti di tutto il mondo, quello cubano cerca di indorare la pillola sostenendo che “pagheranno solo i settori più abbienti”, un argomento di cui, per l’esperienza di altri Paesi, già conosciamo le sorti.
Infine, tutti questi provvedimenti vengono inoltre adottati nel quadro di un processo di continuo e profondo deterioramento del valore d’acquisto del salario dei lavoratori pubblici (che oscilla tra l’equivalente di 10-15 dollari mensili percepiti da una maggioranza e di 35-40 raggiunti da una minoranza), molto al di sotto di quanto guadagnano (per diverse strade) i lavoratori privati del turismo e del commercio.
Un economista governativo, Omar Everleny Pérez Villanueva, calcola che, rispetto al 1989, “il salario reale equivaleva nel 2009 al 24%”. Cioè la grande maggioranza dei lavoratori cubani ha perso in questi ultimi 20 anni più di ¾ del suo potere d’acquisto.
Al contempo, il governo cubano sta per autorizzare il gruppo britannico Esencia Hotels & Resorts, associato all’impresa cubana Palmares S.A., la costruzione di 16 nuovi campi da golf privati nei quali sono anche previste abitazioni di lusso per stranieri in luoghi incantevoli come Varadero e Pinar del Río.
Se enumerassimo questi provvedimenti senza dire in quale Paese sono applicati, chiunque trarrebbe la conclusione che si tratta della classica manovra di aggiustamento capitalista che attacca i lavoratori a vantaggio delle imprese e dei loro profitti, come quelli adottati dai governi di Grecia, Spagna o Francia. Indubbiamente, tutta la sinistra farebbe appello a lottare contro queste manovre, appoggiando gli scioperi e le manifestazioni dei lavoratori, come sta accadendo in Europa. Ma, essendo applicate a Cuba, il governo e molti militanti e organizzazioni di sinistra che lo appoggiano in tutto il mondo sostengono che questi provvedimenti non fanno parte di una manovra capitalista, ma anzi rappresentano una “difesa del socialismo”.
Raúl Castro ha affermato: “bisogna cancellare per sempre l’idea che Cuba sia l’unico Paese al mondo in cui si può vivere senza lavorare” (Granma, 2/8/2010). La posizione di Raúl assomiglia molto a quella di qualsiasi padrone o governo capitalista: gli impiegati statali sono scrocconi che non vogliono lavorare e lo Stato deve liberarsene affinché si guadagnino da vivere.
La rivoluzione cubana, iniziata nel 1959, è stata parte di una serie di processi del secondo dopoguerra che hanno dato origine a nuovi stati operai con economie di transizione al socialismo (Jugoslavia, Cina e Cuba), che costituirono grandi conquiste dei lavoratori, tanto da abbracciare un terzo dell’umanità.
A Cuba, la direzione di Fidel e di Raúl Castro e di Che Guevara non aveva la sua origine nei partiti comunisti, bensì nella piccola borghesia che lottava contro la dittatura di Batista e per la democrazia. Una volta al potere, sospinta dalle pressioni delle circostanze, questa direzione decise di andare al di là del suo programma iniziale, rompere con l’imperialismo e la borghesia cubana espropriandoli e iniziare la costruzione del primo stato operaio dell’America Latina.
Il popolo cubano ottenne progressi immensi nell’istruzione e nella sanità pubbliche, con livelli comparabili ai Paesi imperialisti, superando sotto questi aspetti il Brasile, il Messico o l’Argentina. Vennero eliminate la povertà estrema e la miseria, come riconobbero gli stessi studi degli organismi internazionali imperialisti.
Cuba si convertì nel simbolo di ciò che una rivoluzione socialista era capace di ottenere sotto gli stessi occhi dell’imperialismo. I suoi dirigenti, Fidel e Che Guevara, diventarono il riferimento politico di milioni di combattenti e rivoluzionari .
Ma, sin dall’inizio, questa direzione riprodusse a Cuba il modello burocratico e antidemocratico dello stalinismo sovietico, noto come “socialismo in un Paese solo”. Coerente con questa posizione, in politica estera privilegiò sempre la difesa del suo Stato e la ricerca di accordi con governi borghesi “amici” a scapito dello sviluppo dei processi rivoluzionari, come dimostra l’appoggio dato ai governi di Juan Perón, in Argentina, e a Velasco Alvarado, in Perù, negli anni ’70. Il suo suggerimento alla direzione sandinista nel 1979 fu di non avanzare verso l’espropriazione della borghesia e la costruzione di un nuovo Stato operaio in Nicaragua.
A partire dalla seconda metà degli anni ’70, i disastri delle manovre burocratiche e il cambiamento delle condizioni economiche internazionali portarono allo sfinimento e alla crisi delle economie di transizione nazionali in tutto l’Est. La burocrazia stalinista abbandonò qualsiasi difesa delle basi di queste economie e cominciò ad applicare, con una progressione sempre più accelerata, piani restaurazionisti.
A Cuba, fra il 1977 e il 1983 venne realizzata una serie di riforme filocapitaliste isolate e parziali, che prepararono la strada al capitalismo, pur non rappresentandone ancora la restaurazione. In questo periodo, vennero legalizzate le cooperative e liberalizzata una serie di lavori e professioni in direzione dell’attività privata.
Ma, a partire dal 1990, ci fu un salto di qualità: dopo la restaurazione capitalista nell’Urss, nel 1986, e la caduta della stessa Urss nel 1991. La crisi dell’economia cubana si acuì, debilitata ancor di più dalla sospensione degli aiuti prima ottenuti dalla burocrazia sovietica.
La direzione castrista, con lo stesso Fidel alla testa, iniziò ad applicare una politica dedicata a smontare le basi essenziali dello Stato operaio. Con questa politica cessarono di esistere: l’espropriazioni delle principali leve dell’economia, la loro centralizzazione nelle mani dello Stato, il programma economico statale centralmente pianificato; si pose anche fine al monopolio del commercio estero. Furono tutti provvedimenti assunti negli anni ’90, come la dissoluzione della Giunta Centrale di Pianificazione (1992), l’autorizzazione alle imprese a commerciare liberamente con l’estero e la Legge degli Investimenti Stranieri (1995) che permise l’esistenza di imprese private straniere con diritto a rimpatriare fino al 100% dei suoi profitti. Cuba è tornata ad essere uno Stato capitalista perché la sua economia si sviluppa – ed ora è ordinata – intorno al pieno funzionamento della legge del valore e alla ricerca del profitto privato.
La restaurazione non si è espressa col ritorno della vecchia borghesia “gusana” di Miami, bensì attraverso il dominio sempre maggiore sulla sua economia da parte degli imperialismi europei, specialmente spagnolo, e canadese, in settori economici centrali come il turismo e il commercio, con una dinamica sempre più semicoloniale.
Nel settore del turismo, quello che apporta sempre più entrate in dollari nel Paese, quasi la metà delle abitazioni disponibili sono amministrate da imprese straniere, in particolare spagnole, attraverso i gruppi Sol-Meliá e Barceló.
Nel settore delle miniere di nichel e cobalto (Cuba occupa, rispettivamente, il primo e il secondo posto al mondo per quanto riguarda le riserve), l’impresa cubano-canadese Metalúrgica de Moa, partecipata dalla multinazionale Sherritt, controlla il 40% delle esportazioni totali del nichel.
Nel settore petrolifero si è aperto lo sfruttamento di aeree nel golfo del Messico in favore della Repsol-Ypf, della Petrobras, della Ocean Rig (Norvegia) e della Sherritt Gordon (Canada). Nella costruzione cominciano ad avere peso i capitali israeliani, che, attraverso l’impresa Waknine e Beresousky, controllano anche il 68% della commercializzazione di agrumi e succhi. Lo stesso accade nelle tradizionali produzioni di tabacco e rum. Il principale produttore di sigari avana di Cuba ne ha venduto il 50% a Altadis, che oggi fa parte del gruppo inglese Imperial Tobacco, e l’impresa produttrice del famoso rum Havana Club è passata sotto il controllo del gruppo francese Pernod-Ricard.
Pertanto, oggi Cuba non è commercialmente isolata e, al contrario, riceve investimenti da tutto il resto del mondo.
In realtà, c’è stato un periodo iniziale in cui, a causa dell’espropriazione della borghesia, l’imperialismo ha trattato Cuba come un suo nemico, ha realizzato tentativi di invasione come quello della Baia dei Porci, ha pianificato attentati e costruito un forte embargo politico e commerciale. Ma, a partire dagli anni ’80 e ’90, con le aperture al mercato e poi la restaurazione del capitalismo, sempre più settori dello stesso imperialismo hanno preso a commerciare ed investire a Cuba, specialmente l’imperialismo europeo.
Solo l’imperialismo nordamericano mantiene un embargo commerciale, funzionale alla borghesia “gusana” che è forte negli Usa e ne esige il mantenimento come garanzia per il recupero dei suoi beni espropriati dopo la rivoluzione. Ma anche rispetto agli Usa, nonostante le leggi che lo impediscono in forma completa, il commercio con Cuba è in crescita soprattutto nei settori in cui è permesso. Ciò accade perché un numero sempre maggiore di settori della borghesia yankee vuole libertà per poter investire e commerciare con Cuba e non perdere queste opportunità rispetto ai suoi concorrenti. Per questo, gli Usa già oggi sono fra i cinque più grandi partner commerciali di Cuba.
Può risultare strano che parliamo di restaurazione capitalista quando permangono al potere gli stessi dirigenti della rivoluzione, che per giunta parlano permanentemente di “difesa del socialismo”. Ma dietro l'uso dei queste parole spesso c'è una realtà diversa: Gorbaciov nell’ex Urss e i dirigenti del Partito comunista cinese hanno cercato di dissimulare la loro politica di restaurazione dietro discorsi “socialisti”.
Ma se in Russia e nell’Est europeo i partiti comunisti hanno perso il potere, il processo cinese ha mostrato che è stato possibile restaurare il capitalismo senza cambiare regime politico. Il Pc cinese ha conservato il suo potere egemonico, ma il Paese ha cessato di essere uno Stato operaio diventando un Paese capitalista amministrato dai dirigenti del Pc che si arricchiscono con i nuovi affari. In Cina, il fatto che il regime politico sia dominato in modo dittatoriale dal Pc, lungi dal frenare la restaurazione capitalista l’ha favorita, dando luogo a uno dei maggiori livelli di sfruttamento dei lavoratori al mondo.
La cosa certa è che, al di là delle differenze fra i due Paesi, a Cuba si è verificato un processo simile alla “via cinese” al capitalismo: la restaurazione fu promossa dal partito comunista. Non è casuale che lo stesso Fidel Castro parli in modo lusinghiero del “modello cinese”.
Sia il governo cubano che i suoi difensori nazionali e internazionali riconoscono l’esistenza di questi provvedimenti. Ma dicono che si tratta della “difesa del socialismo”!
Basta insozzare il nome del socialismo chiamando “trasformazioni necessarie” il brutale sfruttamento dei lavoratori in Cina o il piano di adeguamento capitalista del governo dei fratelli Castro!
Coloro che onestamente credono di difendere il socialismo appoggiando e giustificando queste misure rendono un pessimo servizio all’autentica lotta per il socialismo. Perché milioni di lavoratori nel mondo, guardando la realtà cubana o cinese, penseranno: “perché lottare per il socialismo se ciò comporterà lo stesso sfruttamento o la stessa manovra di adeguamento vissuti sotto il capitalismo?”
La vera difesa del socialismo consiste oggi a Cuba nel dare impulso alla lotta dei lavoratori contro questo piano di adeguamento e contro il governo che lo applica e l’appoggio e la difesa di questa lotta quando comincerà a sorgere. Passa anche attraverso la rivendicazione delle libertà democratiche, del diritto di sciopero e della possibilità di organizzare liberamente sindacati indipendenti dallo Stato, affinché i lavoratori possano difendersi dagli attacchi del governo.
Solo sviluppando le lotte contro l’adeguamento capitalista del governo cubano sarà possibile preparare le basi per una rivoluzione socialista che realmente porti la classe operaia al potere.
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(1) Lavoratori in conto proprio (Ndt).