2007-2017. A dieci anni dall'inizio della crisi
Lo sviluppo di nuove
potenzialità rivoluzionarie
di Alberto Madoglio
Nel febbraio 2007 la banca inglese Hsbc,
una delle più grandi su scala globale, dichiarava forti perdite nel settore dei
mutui ad alto rischio (subprime). A
luglio il colosso finanziario Bearn Sterns ammetteva perdite considerevoli su
due propri hedge fund. A settembre le
difficoltà di un’altra banca inglese, Northern Rock, causarono una corsa agli
sportelli da parte di risparmiatori. Quello fu l’anno in cui ebbe iniziò la
cosiddetta Grande Recessione.
Passato un decennio siamo ben lungi
dall’aver superato gli effetti di quella crisi. Le economie del pianeta sono,
più o meno tutte, in una situazione di difficoltà. Al di là di alcuni dati contingenti,
l’economia capitalistica mondiale continua a languire.
I dati statistici confermano la crisi irreversibile dell’economia di mercato
Lo scorso agosto a Jackson Hole, città
degli Usa dove annualmente si incontra, per uno dei suoi svariati meeting, il gotha della finanza
mondiale, l’ex governatore della Fed Bernanke ha lamentato il fatto che la
crescita della produttività negli Usa sia a un misero 0,5%, quando nel 1971
superava il 3% (trend di decrescita comune a tutti i paesi del G7. Vedi Trend labour productivity growth in G7).
Aggiungiamo che, secondo l’Ocse, il tasso annuo di accumulazione lorda del
capitale (cioè quanto si accumula per sostituire i macchinari usurati e per
acquistarne di nuovi, quella che Marx definisce accumulazione allargata),
langue dal 2002 e dopo il crollo 2009 ha ripreso a salire a ritmi molto ridotti.
Non dobbiamo quindi stupirci se anche Paesi
le cui economie sembrano crescere in modo abbastanza sostenuto (es. Spagna), lo
debbano più a una drastico abbassamento dei salari che non a una ripresa di
tutti i fattori della produzione.
Il vecchio continente: da centro dello sviluppo a quello della crisi
In questo quadro assistiamo a una vera e propria crisi sovrastrutturale, particolarmente accentuata in Europa. I partiti tradizionali della borghesia nel Vecchio Continente vedono erodere il consenso tra la loro base elettorale prevalentemente a vantaggio di partiti e movimenti populisti e reazionari (succede in Francia, Italia, Spagna, Germania). Il progetto di Unione Europea vacilla sotto i colpi della Brexit e dei Paesi del gruppo di Visegrad (Polonia, Slovacchia, Repubblica Ceca, Ungheria). Questi ultimi, ridotti allo stato di semi-colonie dalle maggiori potenze imperialiste del continente, Germania in primis, cercano di mantenere il consenso tra gli elettori facendo leva sulle pulsioni razziste, xenofobe e protezioniste, frutto della crisi causata dal progressivo reinserimento di queste nazioni nel mercato mondiale, iniziato alla fine degli anni ’80.
Il caso Italia
Tra le maggiori potenze europee, l’Italia
appare quella più in difficoltà. Nonostante i proclami ottimistici dei governi
che si sono succeduti negli ultimi anni, i dati economici dimostrano quanto
siano stati pesanti le conseguenze della crisi scoppiata nel 2007. L’economia
cresce dell’1% circa, il tasso di disoccupazione rimane stabile oltre l’11%,
quasi il 40 quello dei giovani e per le donne è oltre il 13 (ma con un tasso di
occupazione molto più basso dei maschi. Cioè molte donne hanno rinunciato a
cercare lavoro e sono costrette a occuparsi delle faccende domestiche).
I lavoratori continuano a vedere ridotto il
potere d’acquisto dei loro salari. I rinnovi contrattuali nel settore privato
non segnano alcun cambio di tendenza: il caso più eclatante è quello del
contratto dei metalmeccanici siglato anche dalla Fiom. E anche quando sono
previsti aumenti seppur contenuti, i sindacati, Cgil in testa, sono pronti a
siglare accordi in deroga con i padroni nei quali si afferma che, a causa della
congiuntura, gli aumenti devono essere bloccati: è successo per il contratto
nazionale del commercio.
Per la prima volta, esplicitamente, le
burocrazie sanciscono che la crisi la devono pagare i lavoratori.
Tutto questo ovviamente provoca
fibrillazioni tra i partiti borghesi, prima di tutti il Pd. Dopo la sconfitta
al referendum del 4 dicembre, Renzi si è dimesso da premier e da segretario del
partito. Ciò non è servito a evitare la scissione della “Ditta” da parte di
Bersani e D’Alema. L’apertura della corsa per la segreteria dei Democratici
vede sì l’ex premier favorito, ma con una consistente fronda interna guidata
dal ministro della giustizia Orlando (sostenuto da settori importanti della
grande borghesia, i quali paiono non avere più la fiducia di prima verso l’uomo
di Rignano). Tempi bui si scorgono all’orizzonte per governo e maggioranza. La
necessità di impostare per l’autunno una manovra lacrime e sangue (tra
l’esigenza di bloccare l’aumento dell’Iva, di ulteriori fondi per finanziare
banche e imprese in crisi) rendono sempre più probabile una vittoria dei Cinque
Stelle alle prossime elezioni. Questo nonostante il fallimento della loro
esperienza alla guida della capitale. Ovviamente, molto dipenderà dalla legge
con la quale si andrà a votare, ma un’esclusione dei grillini appare sempre più
complicata.
A sinistra del Pd, nonostante la crisi del
renzismo, non si intravedono processi politici che possano rispondere alle
aspettative dei lavoratori. Di Rifondazione Comunista abbiamo scritto in un
recente articolo al quale rimandiamo. Sinistra Italiana, nata da poche
settimane, già subisce la scissione di parlamentari verso il nuovo partito dei
bersaniani.
Alla crisi storica e irreversibile del
riformismo italiano (al quale non appartengono Bersani e soci, usciti dal Pd
solo per ragioni di potere, ma del quale Pd condividono il progetto liberale)
si unisce quella di quelle organizzazioni che noi definiamo
"centriste", cioè rivoluzionarie solo a parole. Anche su questo tema
abbiamo già detto in altri articoli di questi giorni. Basti qui aggiungere che
il fallimento di queste esperienze è l'ennesima conferma che non ci sono vie
intermedie ed è necessario costruire una organizzazione, un partito di tipo
bolscevico.
Per parte nostra stiamo lavorando in questo
senso: pur evidentemente consapevoli della nostra debolezza a fronte di un così
gigantesco compito.
Se il percorso da seguire non è semplice,
c'è da dire tuttavia che il contesto internazionale (su cui arriviamo tra
qualche riga) necessariamente avrà un influenza anche sul nostro Paese. E, per
quanto riguarda l'Italia, pur nella situazione data ci sono alcuni primi
segnali che indicano un possibile futuro cambio di tendenza nella lotta di
classe nel Paese. Il successo degli scioperi proclamati lo scorso 8 marzo ci indica
una disponibilità alla lotta che per ora non trova canali per esprimersi
appieno. Tanto più per questo è importante, a nostro giudizio, un ulteriore
crescita e rafforzamento del Fronte di Lotta No Austerity, che non a caso ha
svolto un ruolo non secondario anche in quella occasione.
Al momento le mobilitazioni riguardano,
salvo eccezioni, prevalentemente settori di avanguardia ma in un futuro non
lontano, come succede già in queste ore in altri Paesi (anche lì con cambi
repentini), è possibile che sia il proletariato nel suo insieme a lanciare la
sfida ai padroni e ai loro governi.
Usa e Brasile: la differenza? E' nella presenza o meno della direzione rivoluzionaria
La presidenza Trump, iniziata da poco più
di due mesi, si trova ad affrontare forti opposizioni al suo progetto.
Il sostegno popolare, fin dall’inizio, è
meno ampio di quanto viene descritto. La sua elezione è stata possibile grazie
al sistema di voto, nonostante i due milioni di consensi ottenuti in meno
rispetto alla sua contendente democratica, espressione della finanza di Wall
Street. Lo stop da parte del Congresso Usa allo smantellamento dell’Obama Care
(pseudo assicurazione sanitaria pubblica per i meno abbienti, in realtà regalo
alle multinazionali assicurative); l’abolizione
disposta dai tribunali ai due muslim ban (blocco all’ingresso negli Usa
di cittadini provenienti da paesi musulmani) dopo che impotenti manifestazioni
popolari avevano chiesto il ritiro di questo provvedimento esplicitamente
razzista; la marcia di centinaia di migliaia di donne avvenuta il giorno dopo
l’insediamento del nuovo presidente per
protestare contro il suo programma apertamente maschilista sono segnali che il
quadriennio di presidenza del tycoon
sarà meno trionfale di quanto molti già si immaginavano.
Le stesse politiche volta a tutelare la
produzione e l’occupazione a stelle e strisce si scontrano con le proteste di
ampi settori della borghesia della più grande potenza imperialista del pianeta,
che vogliono che gli Usa continuino a essere paladini del liberismo e si oppongano
ai dazi sulle importazioni appena imposti.
Al momento questa politica neo
protezionista ha il sostegno delle grandi burocrazie sindacali (Afl-Cio). Ma
quando l’illusione della difesa dei posti di lavoro e dei salari dei lavoratori
americani si scioglierà come neve al sole, non possiamo escludere di assistere
a una ripresa delle lotte che coinvolga la classe operaia, che da decenni vede
deteriorarsi le sue condizioni di vita.
E’ il Brasile, oggi, la situazione più
avanzata della lotta di classe internazionale.
Nel più grande stato dell’America Latina la
crisi politica, sociale e istituzionale che si è aperta nel giungo 2013
continua ad accentuarsi e approfondirsi. Gli scandali che hanno travolto il
governo di centrosinistra guidato dal Pt di Lula e Dilma ora si stanno
propagando al centrodestra di Temer, attuale presidente del Paese. Metà dei
parlamentari risultano coinvolti in casi di corruzione senza precedenti.
In tutto questo quadro si inseriscono le
lotte e le mobilitazioni che da ormai quattro anni stanno attraversando il
Paese.
Lo scorso 15 marzo è stata una giornata che
ha visto un'ulteriore ascesa della lotta di classe. Cortei di centinaia di
migliaia di giovani, donne, operai, hanno attraversato non solo gli immensi
viali di San Paolo, la capitale economica, ma tutte le città, piccole e grandi,
della federazione.
Come spesso accade in questi casi, il
successo, per certi versi inaspettato nelle sue proporzioni, della giornata di
lotta, ha galvanizzato le masse. E’ stato convocato uno sciopero generale
nazionale per la fine di aprile, al quale, pur con dei distinguo, si sono
aggiunte tutte le grandi confederazioni sindacali concertative, Cut in testa,
che fino a non molto tempo fa si limitavano ad appelli per mobilitarsi contro
un inesistente golpe ai danni di Dilma e del Pt.
Quello che avviene nelle strade di San
Paolo, Rio de Janerio, Brasilia ecc, è la prova che anche in situazioni di
crisi, non è ineluttabile che ai lavoratori venga consegnato un futuro fatto di
licenziamenti e precarietà.
Il tentativo delle centrali sindacali
moderate e del Pt è far si che lo sciopero generale si svolga in modo ordinato,
e che possa favorire la nuova candidatura di Lula alla carica di presidente
nelle elezioni del 2018. Questo è anche l’auspicio della borghesia del Paese.
Ma una volta aperto lo scrigno che contiene
la lotta di classe, è difficile per chiunque farla rientrare. Ampi settori di
lavoratori non si accontentano più di lottare solo contro la riforma delle
pensioni e del mercato del lavoro. La parola d’ordine della cacciata del
governo (sostenuta dalla nostra sezione brasiliana, il Pstu) comincia a essere
una rivendicazione compresa non solo da poche avanguardie combattive ma da
settori sempre più ampi di classe operaia.
Se a ciò aggiungiamo che si stanno
costituendo - sempre con l'impulso del Pstu - comitati di sciopero in grado di
organizzare ed estendere la lotta, ecco che vediamo una possibilità concreta di
sviluppi radicali, che mettano in discussione non solo Temer ma il dominio
capitalista del Paese. Qui si inserisce la propaganda che il Pstu fa in ogni
corteo a favore di un governo dei lavoratori basato sui comitati o consigli.
Fare come in Russia nel 1917
Non è casuale che
ciò accada proprio in Brasile. Grazie alla presenza del più importante e
radicato partito che si rivendica trotskista nel mondo, appunto il Pstu; e
grazie alla presenza del più importante sindacato di base dell'America Latina
(e non solo): la Conlutas, in cui il Pstu svolge un ruolo dirigente. Ci sono
insomma, almeno in embrione, le condizioni soggettive che consentono alle lotte
di estendersi e radicalizzarsi. Si è creata una dialettica positiva nella lotta
di classe: le mobilitazioni rafforzano il Pstu (e la Lit-Quarta Internazionale)
che a sua volta contribuisce alla loro ulteriore crescita.
L’imponente sviluppo della lotta che
vediamo in Brasile, e che comincia a estendersi in Argentina (sciopero generale
del 7 aprile), Cile (le più grandi mobilitazioni di piazza degli ultimi
decenni), Paraguay (il parlamento dato alle fiamme dai manifestanti), possono far
sì che questo anno il centesimo anniversario dell'Ottobre bolscevico non passi
come una mera ricorrenza storica, ma possa essere un anniversario da cui prenda
le mosse un nuovo "assalto al cielo".
Il Pdac, il Pstu e la Lit-Quarta
Internazionale lottano ogni giorno perché tutto ciò non rimanga solo un
auspicio.