Uno stupro non va mai giustificato:
basta scuse!
Commissione Lavoro Donne – Pdac
Una
partecipata manifestazione, numerose proteste e una campagna di solidarietà
sono state l’indignata risposta all’assoluzione in secondo grado di sei ragazzi
accusati – e condannati in primo grado– per aver stuprato una ragazza di 22
anni, a Firenze il 26 luglio 2008, in località Fortezza da Basso.
Dopo la denuncia per stupro gli imputati vennero arrestati e il processo
terminò nel 2013 con la sentenza
di condanna per sei dei sette accusati a 4 anni e 6
mesi di reclusione.
I difensori dei sei condannati ricorsero in appello e la nuova sentenza
ha rovesciato la condanna in primo grado: i sei imputati sono stati tutti
assolti con formula piena perché «il fatto non sussiste»; la procura generale
di Firenze non ha presentato ricorso in Cassazione e i termini sono scaduti lo
scorso 18 luglio.
La manifestazione di fine luglio contro la sentenza (e le numerose
altre proteste in diverse forme) denuncia che l’assoluzione è intrisa di
motivazioni che rappresentano giudizi morali sulla vita privata e sessuale
della ragazza. In pratica le motivazioni dell’assoluzione spostano l’inaudita
gravità di quanto successo su un altro piano: l’aggressione e lo stupro di
gruppo non appaiono più come una violenza praticata ad un soggetto non
consenziente e in uno stato di inferiorità psichica ma l’accusa diventa
infondata, essendo, la ragazza, “un soggetto femminile fragile, ma al tempo
stesso disinibito, creativo, in grado gestire la propria (bi)sessualità, di
avere rapporti fisici occasionali...”
Secondo la difesa l’assoluzione è il risultato “di giudizi morali”
sulla vita della ragazza, giudizi che si sono spinti a descrivere la vita della
ragazza come «vita non lineare»
La
vittima ha risposto a questa assoluzione con una toccante lettera pubblica
nella quale rivendica la sua vita e le sue scelte, quella vita e quelle scelte
che sono servite ai giudici per motivare l’assoluzione dei ragazzi che lei
continua con forza ad accusare di essere i suoi stupratori: “… sono
femminista e attivista lgbt e fin dai 15 anni lotto contro questo schifo di
patriarcato….se per essere creduta e credibile come vittima di uno stupro non
bastano referti medici, psichiatrici, mille testimonianze oltre alla tua, le
prove del dna, ma conta solo il numero di persone con cui sei andata a letto
prima che succedesse, o che tipo di biancheria porti, se usi i tacchi, se hai
mai baciato una ragazza, se giri film o fai teatro, se hai fatto della body
art, se non sei un tipo casa e chiesa e non ti periti di scendere in piazza e
lottare per i tuoi diritti, se insomma sei una donna non conforme, non puoi
essere creduta… Essere vittima di violenza e
denunciarla é un’arma a doppio taglio: verrai creduta solo e fin tanto che ti
mostrerai distrutta, senza speranza, finché ti chiuderai in casa buttando la
chiave dalla finestra, come una moderna Raperonzolo. Ma se mai proverai a
cercare di uscirne, a cercare, pian piano di riprendere la tua vita, ti sarà
detto “ah ma vedi, non ti é mica successo nulla, se fossi stata veramente
vittima non lo faresti”... Così può succedere quindi che in sede di processo
qualcuno tiri fuori una fotografia ricavata dai social network in cui, a
distanza di tre anni dall’accaduto, sei con degli amici, sorridi e non hai il
solito muso lungo, prova lampante che non é stato un delitto così grave… Sono
stata offesa come femminista e attivista lgbt quando la mia adesione a una
manifestazione contro la violenza sulle donne é stata vista come “eccessiva” e
non idonea a una persona vittima di violenza, essendomi mostrata troppo
“forte”... Hanno offeso, con questa assoluzione, la mia
condizione economica, di gran lunga peggiore della loro che, se hanno vinto la
causa possono dir grazie ai tanti avvocati che hanno cambiato senza badare a
spese, mentre io mi sono dovuta accontentare di farmi difendere da uno solo. E
condannandomi a dovere essere debitrice a vita per i soldi della provvisionale
che ho speso per mantenermi negli ultimi due anni, oltre al fatto che nessuno
ripagherà mai il dolore, gli anni passati in depressione senza riuscire né a
studiare né a lavorare, a carico dei miei, e tutti i problemi che mi porto
dietro fino ad adesso. Rischio a mia volta un’accusa per diffamazione, anche
scrivendo questa stessa lettera”.
Anche
uno dei ragazzi assolti ha scritto una lettera pubblica nella quale dice di
essere vittima e scrive: “Sono stato umiliato,
estromesso, ostracizzato, mortificato, minacciato e insultato”.
Come
compagne del Pdac siamo dalla parte della ragazza e di tutte le donne e gli
uomini che in questi giorni hanno protestato contro la sentenza. Non siamo da
questa parte per un bisogno di vendetta o per astio nei confronti del “maschio”
ma perché siamo convinte sia necessario abbattere ogni forma di oppressione e
di maschilismo: una ragazza alla cui denuncia si risponde scandagliando la sua
vita privata, chiedendole conto delle manifestazioni a cui ha partecipato e
delle sue scelte sessuali, è un ragazza violentata una seconda volta.
Della
lettera scritta da uno degli accusati (e assolti) facciamo tesoro di questo
passaggio: “Il giorno prima del mio arrivo, alla cella accanto un uomo si è
impiccato alla porta con un laccio. Io penso con trasporto ai rasoi per la
barba, nel bagno, ma poi scopro che è usanza comune tagliarsi con quelli: lo
fanno i giovanissimi marocchini per protesta, e quelli che si fingono pazzi,
per farsi spostare alla clinica psichiatrica”.
Questa
triste vicenda potrebbe essere l’occasione per parlare e combattere contro
questo sistema maschilista, oppressivo e ingiusto. Contro un sistema, il
capitalismo, che in questo momento storico, in cui sta vivendo la sua mortale
crisi, ci fa vedere il suo orrido volto anche attraverso l’aumento delle
violenze sulle donne e sui bambini, anche attraverso la disperazione degli
immigrati, dei senza tetto, dei disperati , anche attraverso l’orrore delle
carceri che sono il contenitore di un disagio sociale crescente.
Siamo
dalla parte della ragazza di Firenze e siamo dalla parte dei giovanissimi
marocchini che si tagliano in carcere per protesta: le due facce di una stessa
medaglia di orrore, paura, oppressione e ingiustizia sociale.