Partito di Alternativa Comunista

L'inganno dei "Nidi-famiglia"

L'inganno dei "Nidi-famiglia"

La crisi la pagano i bambini

 

 

di Patrizia Cammarata

 

Per un bambino al di sotto del terzo anno d’età è impossibile comunicare se gli adulti che si sono presi cura di lui sono stati gentili e rispettosi o arroganti e violenti, se il cibo somministrato era caldo e sufficiente o deteriorato e insufficiente, se è stato cambiato quando ne aveva bisogno, se è stato consolato quando piangeva, se i suoi bisogni di serenità, di riposo, d’affetto, di pulizia, d’ascolto, sono stati accolti o se, invece, l’unica preoccupazione a lui rivolta è stata quella di consegnarlo “integro fisicamente” ai genitori al termine della giornata
Un bambino così piccolo non è in grado di valutare tutto questo in modo consapevole e l’eventuale incuria o i maltrattamenti, sia psicologici sia fisici, si manifestano in forme di disagio che spesso solo un’attenta ed esperta osservazione riesce ad interpretare, e talvolta questo può accadere anche molto tardi rispetto a quando il problema ha avuto luogo. Per questi motivi tutti i servizi rivolti alla prima infanzia sono particolarmente delicati e necessitano di un’attenzione maggiore rispetto agli altri: per chi conosce i bambini e li rispetta è particolarmente odiosa ogni scelta che metta in pericolo la certezza della loro sicurezza e del loro benessere, specialmente se a fini di profitto o di lucro. Il lavoro d’equipe nel quale sono coinvolti più soggetti nella cura e nell’educazione del bambino sono la migliore garanzia per ridurre al massimo eventuali mancanze o abusi, soprattutto se il personale lavora in una struttura pubblica ed è assunto a tempo indeterminato. Questa è un garanzia per evitare eventuali ricatti occupazionali nei casi in cui il personale si assumesse la responsabilità di denunciare disservizi o mancanze ai danni dei piccoli ospiti.

 

 

Asili nido: una storia legata a quella del movimento delle donne e dei lavoratori

Ogni privatizzazione di un servizio pubblico rappresenta un grave danno per i lavoratori/utenti e per le loro famiglie. Si parli di ospedali, di ferrovie o d’università, il carattere pubblico va difeso ad oltranza perché, pur con le contraddizioni e i limiti tipici di un servizio prodotto nella società capitalista, il servizio pubblico per l’utente che ne usufruisce e per coloro che ci lavorano è nella stragrande maggioranza dei casi di maggior qualità rispetto al servizio privato.
“Per far crescere un bambino ci vuole un intero villaggio”. Questo proverbio africano esprime efficacemente l'importanza degli asili nido che, affiancando e integrando la famiglia nell’opera educativa, devono risolvere il problema - anche se questo spesso avviene solo parzialmente, come vedremo - di “dove e con chi lasciare i figli piccoli” durante il periodo di assenza per motivi di lavoro dei genitori. Pur essendo ancora lontani dalla loro equa distribuzione nel territorio nazionale e pur scontando ancora, come la scuola d’infanzia, il condizionamento della cultura che vede nella figura femminile l’unica depositaria del sapere nella cura e nell’educazione dei bambini piccoli (rarissimi i casi di presenza di educatori maschi), gli asili nido hanno rappresentato per un lungo periodo un'isola felice nella quale le differenze di classe venivano parzialmente azzerrate e, pur con limiti talvolta anche pesanti, hanno offerto ai bambini e ai genitori lavoratori un’esperienza sicura e stimolante.
Per essere precisi, in Italia gli asili nido nascono nel periodo fascista (1925-1934 con l’istituzione dell’Onmi “Opera Nazionale Maternità Infanzia”), organizzazione sorta principalmente per i minori orfani o abbandonati. Coerentemente con l’ideologia fascista rivestivano un mero ruolo assistenziale per gli strati sociali più poveri della popolazione mentre mancava totalmente qualsiasi carattere educativo. Il personale che si occupava specificatamente dei bambini era composto da puericultrici, le cui scuole erano annesse agli ospedali e al vertice dell’organizzazione del personale di ogni nido c’era un’"economa-direttrice".
Dopo la seconda guerra mondiale, con le necessità capitalistiche della ricostruzione, e con l’inserimento delle donne nelle attività produttive, va in vigore la legge istitutiva delle “camere di allattamento” (1950 legge n. 860) che vede il servizio prevalentemente ubicato nelle fabbriche, in “risposta alle esigenza della donna lavoratrice”.
Bisogna attendere la fine degli anni Sessanta e gli anni Settanta perché le tematiche educative vedano il loro ingresso anche negli asili nido (1971-legge n.1044). Sulla spinta del movimento dei lavoratori e di emancipazione delle donne di quegli anni, gli asili nido sono sottratti da un ruolo di mero parcheggio per elevarli a servizi educativi in supporto alla famiglia, con proposte di gestione sociale del servizio, mettendo in discussione anche il ruolo del personale che da “assistente” diventa “educatore”. Gli asili nido diventano un tema non più circoscritto alle mere esigenze delle imprese e delle madri lavoratrici ma diventano uno spazio sociale-educativo che dovrebbe coinvolgere l’intera collettività. “Per far crescere un bambino ci vuole un intero villaggio”, appunto.
In questo periodo viene sciolto l’Onmi e vengono istituiti i consultori familiari.
Sparisce all’interno del nido la figura dell’economa-direttrice e in molte realtà l’asilo viene gestito direttamente dal personale, attraverso una coordinatrice che è eletta a rotazione dal personale stesso, e il cui salario rimane invariato.
Per tutti gli anni Settanta e i primi anni Ottanta gli asili nido del Paese vedono una completa ristrutturazione degli ambienti che da locali simili ad ambulatori medici diventano locali pensati e studiati a misura di bambino, stimolanti per lo sviluppo della sua intelligenza e garanti della sua sicurezza. Cambia anche il linguaggio e chi si prende cura dei bambini non è più una puericultrice chiamata “zia” ma un’educatrice assunta con concorso pubblico, con diploma di scuola media superiore specifico, spesso laureata. I locali degli asili da “reparti” (linguaggio ospedaliero) diventano “sezioni”. Sono gli anni delle battaglie che vedono uniti genitori e personale, sia per rivendicazioni riguardanti i contratti economici, sia per la sicurezza e la ristrutturazione degli ambienti.

 

Gli anni della concertazione e della flessibilità

Gli anni Novanta segnano a poco a poco, anche in questo settore, un’involuzione. Gli asili nido, purtroppo, non sono mai stati una realtà presente in tutte le zone d’Italia. Con la motivazione, quindi, che gli asili sono presenti più al centro-nord che al sud, si è preso a pretesto un reale problema - cioè che erano frequentati solo da una minoranza dei bambini a causa delle lunghe liste d’attesa e delle rette troppo alte per le famiglie - puntando il dito sull’orario insufficiente a soddisfare le esigenze della famiglia che lavora (in una realtà lavorativa che spesso non conosce più un orario di lavoro sicuro): è così iniziato il tormentone della necessità di finanziare le realtà private e oggi si auspica l’apertura dei “nidi famiglia”.
Nel 1997 il Parlamento approva la legge n.285 “Disposizioni per la promozione di diritti ed opportunità per l’infanzia e l’adolescenza” che, promovendo progetti con caratteristiche “innovative e sperimentali”, amplia la possibilità della gestione di “organizzazioni in famiglie di autogestione”. I primi anni del 2000 vedono un sempre maggior incoraggiamento nei confronti dei nidi privati anche attraverso cospicui finanziamenti pubblici e nascono i primi “nidi famiglia”. La gestione dei nidi comunali è affidata sempre più a cooperative, vere agenzie di sfruttamento del personale che, essendo precario e ricattabile, difficilmente riesce a denunciare eventuali disservizi. Ma l’arretramento del servizio non si ferma alla sua trasformazione in servizi gestiti da cooperative private. Federica Guidi, presidente dei Giovani di Confindustria, nel 2008 dichiara al Corriere della Sera: “Ormai gli impieghi dalle nove alle cinque sono un’eccezione”. Nel medesimo articolo si può leggere la conseguente dichiarazione di Sabina Guancia, consigliera di parità supplente in Lombardia: “Il nido aziendale ha anche un altro limite. Sono una soluzione auspicabile solo per le mamme e per i papà che in ufficio passano al massimo otto ore nell’arco centrale della giornata. Non si può pensare di tenere il piccolo a fare gli straordinari….negli ultimi anni si sta investendo sempre di più sul modello delle Tagesmutter” (dal tedesco “mamme di giorno”).

 

I “nidi –famiglia”: la crisi scaricata sui più piccoli

I “Nidi-famiglia” (o “nidi-condominiali” o “Tagesmutter”) sono quindi la soluzione all’orario flessibile del lavoro precario odierno, allo smantellamento dei servizi pubblici e quindi anche degli asili nido comunali, al problema delle vertenze sindacali che talvolta, purtroppo per i padroni, nascono anche fra il personale precario, sfruttato e mal pagato delle cooperative (si veda ad esempio, tanto per citare solo un caso, la battaglia sindacale del Comitato difesa Lavoratori delle Cooperative – RdB Cub Privato negli asili nido a Firenze nel 2004).
L’idea parte dal Nord Europa (Tagesmutter) e, come tutti i progetti che creano profitto per i privati e smantellano lo stato sociale per i lavoratori e le loro famiglie, trovano l’assenso della classe politica italiana, sia di centrodestra sia di centrosinistra. Le statistiche ufficiali parlano di un 40% delle famiglie che vorrebbe usufruire dei nidi, ma solo tre regioni (Toscana, Umbria ed Emilia Romagna) hanno una copertura superiore al 25%. A quest’esigenza si risponde scaricando la cura e l’educazione dei piccoli ai privati. Basta dare un’occhiata in internet per vedere come l’educazione dei bambini piccolissimi in questa società è una ghiotta occasione di profitto. L’accattivante termine di “nidofamiglia” cela la realtà di un servizio improvvisato nel quale qualsiasi persona (meglio comunque se “mamma”) può aprire un nido nella propria abitazione. E’ sufficiente che frequenti un corso che va dalle 50 alle 100 ore. Le regole possono subire delle variazioni a seconda delle regioni e dei comuni, mentre è sicuro che chi volesse intraprendere quest’attività potrà contare su cospicui finanziamenti pubblici. Ecco quindi che “Crea Impresa” pubblicizza in internet: “vuoi avviare anche tu, subito e senza commettere errori, questo business di successo?” e propone la consulenza gratis per trovare “i contributi a fondo perduto e le agevolazioni finanziarie per realizzarlo”. Alla faccia dei diplomi, dei corsi d’aggiornamento, dell’importanza del lavoro d’equipe, dei concorsi richiesti al personale dei nidi pubblici! Ora il sito “Progetto Nidimprendo” strizza l’occhio a qualsiasi “mamma” presente nel territorio nazionale e suggerisce: mamme siate “imprenditrici aprendo un nido in famiglia”.
Quale controllo sulla qualità del servizio, sulla sicurezza dei bambini, su quanto si svolge durante la giornata, ci potrà essere nelle centinaia di nidi che apriranno al chiuso di abitazioni private nei prossimi tempi?
Nel frattempo si erogheranno fiumi del denaro dei lavoratori a queste piccole imprese private e si continuerà nel taglio di ospedali e scuole pubbliche. Mentre il ministero delle Pari Opportunità prevede 10 milioni di euro per incentivare i “nidi famiglia” attraverso l’esperienza delle “Tagesmutter”, le varie giunte e amministrazioni locali si preparano al cambiamento, lasciando boccheggiare gli asili e le scuole per l’infanzia pubbliche e finanziando in modo cospicuo le scuole private, come successo a Vicenza dove l’amministrazione del sindaco Variati (del PD, eletto anche con i voti di Rifondazione Comunista, Verdi, Comunisti Italiani, Italia dei valori, lista Vicenza Libera-No Dal Molin), ha aumentato il contributo alle costose (per le famiglie che vogliono accedervi) nove scuole d’infanzia paritarie (aderenti alla Fism-Federazione Italiana Scuole Materne) sia nel 2008 sia nel 2009 per arrivare ad un contributo di ben 497 mila euro nel 2010. Nel frattempo i genitori delle scuole d’infanzia comunali si autotassavano per l’acquisto di materiale didattico affinché le maestre potessero essere in grado di svolgere un minimo di attività.
E’ necessario ritornare a occupare le strade e le piazze e riportare prepotentemente nell’agenda delle organizzazioni sindacali e politiche il tema della sicurezza, della cura, della salute e dell’istruzione per i lavoratori, i loro figli e le loro famiglie. Occupiamo le fabbriche che chiudono e licenziano ed esigiamo che la crisi non sia scaricata sulle nuove generazioni! Pretendiamo, per noi e per i nostri figli, “il pane e le rose”!

 

 

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