L'inganno dei "Nidi-famiglia"
La crisi la pagano i bambini
di Patrizia Cammarata
Asili nido: una storia legata a quella del movimento delle donne e dei lavoratori
Ogni
privatizzazione di un servizio pubblico rappresenta un grave danno per i
lavoratori/utenti e per le loro famiglie. Si parli di ospedali, di ferrovie o
d’università, il carattere pubblico va difeso ad oltranza perché, pur con le
contraddizioni e i limiti tipici di un servizio prodotto nella società
capitalista, il servizio pubblico per l’utente che ne usufruisce e per coloro
che ci lavorano è nella stragrande maggioranza dei casi di maggior qualità
rispetto al servizio privato.
“Per
far crescere un bambino ci vuole un intero villaggio”. Questo proverbio
africano esprime efficacemente l'importanza degli asili nido che, affiancando e
integrando la famiglia nell’opera educativa, devono risolvere il problema - anche
se questo spesso avviene solo parzialmente, come vedremo - di “dove e con chi
lasciare i figli piccoli” durante il periodo di assenza per motivi di lavoro
dei genitori. Pur essendo ancora lontani dalla loro equa distribuzione nel
territorio nazionale e pur scontando ancora, come la scuola d’infanzia, il
condizionamento della cultura che vede nella figura femminile l’unica
depositaria del sapere nella cura e nell’educazione dei bambini piccoli
(rarissimi i casi di presenza di educatori maschi), gli asili nido hanno rappresentato
per un lungo periodo un'isola felice nella quale le differenze di classe
venivano parzialmente azzerrate e, pur con limiti talvolta anche pesanti, hanno
offerto ai bambini e ai genitori lavoratori un’esperienza sicura e stimolante.
Per
essere precisi, in Italia gli asili nido nascono nel periodo fascista (1925-1934
con l’istituzione dell’Onmi “Opera Nazionale Maternità Infanzia”),
organizzazione sorta principalmente per i minori orfani o abbandonati.
Coerentemente con l’ideologia fascista rivestivano un mero ruolo assistenziale
per gli strati sociali più poveri della popolazione mentre mancava totalmente
qualsiasi carattere educativo. Il personale che si occupava specificatamente
dei bambini era composto da puericultrici, le cui scuole erano annesse agli
ospedali e al vertice dell’organizzazione del personale di ogni nido c’era
un’"economa-direttrice".
Dopo
la seconda guerra mondiale, con le necessità capitalistiche della
ricostruzione, e con l’inserimento delle donne nelle attività produttive, va in
vigore la legge istitutiva delle “camere di allattamento” (1950 legge n. 860)
che vede il servizio prevalentemente ubicato nelle fabbriche, in “risposta alle
esigenza della donna lavoratrice”.
Bisogna
attendere la fine degli anni Sessanta e gli anni Settanta perché le tematiche
educative vedano il loro ingresso anche negli asili nido (1971-legge n.1044).
Sulla spinta del movimento dei lavoratori e di emancipazione delle donne di
quegli anni, gli asili nido sono sottratti da un ruolo di mero parcheggio per
elevarli a servizi educativi in supporto alla famiglia, con proposte di
gestione sociale del servizio, mettendo in discussione anche il ruolo del
personale che da “assistente” diventa “educatore”. Gli asili nido diventano un
tema non più circoscritto alle mere esigenze delle imprese e delle madri
lavoratrici ma diventano uno spazio sociale-educativo che dovrebbe coinvolgere
l’intera collettività. “Per far crescere un bambino ci vuole un intero
villaggio”, appunto.
In
questo periodo viene sciolto l’Onmi e vengono istituiti i consultori familiari.
Sparisce
all’interno del nido la figura dell’economa-direttrice e in molte realtà
l’asilo viene gestito direttamente dal personale, attraverso una coordinatrice
che è eletta a rotazione dal personale stesso, e il cui salario rimane
invariato.
Per
tutti gli anni Settanta e i primi anni Ottanta gli asili nido del Paese vedono
una completa ristrutturazione degli ambienti che da locali simili ad ambulatori
medici diventano locali pensati e studiati a misura di bambino, stimolanti per
lo sviluppo della sua intelligenza e garanti della sua sicurezza. Cambia anche
il linguaggio e chi si prende cura dei bambini non è più una puericultrice
chiamata “zia” ma un’educatrice assunta con concorso pubblico, con diploma di
scuola media superiore specifico, spesso laureata. I locali degli asili da
“reparti” (linguaggio ospedaliero) diventano “sezioni”. Sono gli anni delle
battaglie che vedono uniti genitori e personale, sia per rivendicazioni
riguardanti i contratti economici, sia per la sicurezza e la ristrutturazione
degli ambienti.
Gli anni della concertazione e della flessibilità
Gli
anni Novanta segnano a poco a poco, anche in questo settore, un’involuzione.
Gli asili nido, purtroppo, non sono mai stati una realtà presente in tutte le
zone d’Italia. Con la motivazione, quindi, che gli asili sono presenti più al
centro-nord che al sud, si è preso a pretesto un reale problema - cioè che erano
frequentati solo da una minoranza dei bambini a causa delle lunghe liste
d’attesa e delle rette troppo alte per le famiglie - puntando il dito
sull’orario insufficiente a soddisfare le esigenze della famiglia che lavora
(in una realtà lavorativa che spesso non conosce più un orario di lavoro
sicuro): è così iniziato il tormentone della necessità di finanziare le realtà
private e oggi si auspica l’apertura dei “nidi famiglia”.
Nel
1997 il Parlamento approva la legge n.285 “Disposizioni per la promozione di
diritti ed opportunità per l’infanzia e l’adolescenza” che, promovendo progetti
con caratteristiche “innovative e sperimentali”, amplia la possibilità della
gestione di “organizzazioni in famiglie di autogestione”. I primi anni del 2000
vedono un sempre maggior incoraggiamento nei confronti dei nidi privati anche
attraverso cospicui finanziamenti pubblici e nascono i primi “nidi famiglia”.
La gestione dei nidi comunali è affidata sempre più a cooperative, vere agenzie
di sfruttamento del personale che, essendo precario e ricattabile,
difficilmente riesce a denunciare eventuali disservizi. Ma l’arretramento del
servizio non si ferma alla sua trasformazione in servizi gestiti da cooperative
private. Federica Guidi, presidente dei Giovani di Confindustria, nel 2008 dichiara
al Corriere della Sera: “Ormai gli
impieghi dalle nove alle cinque sono un’eccezione”. Nel medesimo articolo si
può leggere la conseguente dichiarazione di Sabina Guancia, consigliera di parità
supplente in Lombardia: “Il nido aziendale ha anche un altro limite. Sono una
soluzione auspicabile solo per le mamme e per i papà che in ufficio passano al
massimo otto ore nell’arco centrale della giornata. Non si può pensare di
tenere il piccolo a fare gli straordinari….negli ultimi anni si sta investendo
sempre di più sul modello delle Tagesmutter” (dal tedesco “mamme di giorno”).
I “nidi –famiglia”: la crisi scaricata sui più piccoli
I “Nidi-famiglia” (o
“nidi-condominiali” o “Tagesmutter”)
sono quindi la soluzione all’orario flessibile del lavoro precario odierno,
allo smantellamento dei servizi pubblici e quindi anche degli asili nido
comunali, al problema delle vertenze sindacali che talvolta, purtroppo per i
padroni, nascono anche fra il personale precario, sfruttato e mal pagato delle
cooperative (si veda ad esempio, tanto per citare solo un caso, la battaglia
sindacale del Comitato difesa Lavoratori delle Cooperative – RdB Cub Privato
negli asili nido a Firenze nel 2004).
L’idea
parte dal Nord Europa (Tagesmutter) e, come tutti i progetti che creano
profitto per i privati e smantellano lo stato sociale per i lavoratori e le
loro famiglie, trovano l’assenso della classe politica italiana, sia di
centrodestra sia di centrosinistra. Le statistiche ufficiali parlano di un 40%
delle famiglie che vorrebbe usufruire dei nidi, ma solo tre regioni (Toscana,
Umbria ed Emilia Romagna) hanno una copertura superiore al 25%. A
quest’esigenza si risponde scaricando la cura e l’educazione dei piccoli ai
privati. Basta dare un’occhiata in internet per vedere come l’educazione dei
bambini piccolissimi in questa società è una ghiotta occasione di profitto.
L’accattivante termine di “nidofamiglia” cela la realtà di un servizio
improvvisato nel quale qualsiasi persona (meglio comunque se “mamma”) può
aprire un nido nella propria abitazione. E’ sufficiente che frequenti un corso
che va dalle 50 alle 100 ore. Le regole possono subire delle variazioni a
seconda delle regioni e dei comuni, mentre è sicuro che chi volesse
intraprendere quest’attività potrà contare su cospicui finanziamenti pubblici.
Ecco quindi che “Crea Impresa” pubblicizza in internet: “vuoi avviare anche tu,
subito e senza commettere errori, questo business di successo?” e propone la
consulenza gratis per trovare “i contributi a fondo perduto e le agevolazioni
finanziarie per realizzarlo”. Alla faccia dei diplomi, dei corsi
d’aggiornamento, dell’importanza del lavoro d’equipe, dei concorsi richiesti al
personale dei nidi pubblici! Ora il sito “Progetto Nidimprendo” strizza
l’occhio a qualsiasi “mamma” presente nel territorio nazionale e suggerisce:
mamme siate “imprenditrici aprendo un nido in famiglia”.
Quale
controllo sulla qualità del servizio, sulla sicurezza dei bambini, su quanto si
svolge durante la giornata, ci potrà essere nelle centinaia di nidi che
apriranno al chiuso di abitazioni private nei prossimi tempi?
Nel
frattempo si erogheranno fiumi del denaro dei lavoratori a queste piccole
imprese private e si continuerà nel taglio di ospedali e scuole pubbliche.
Mentre il ministero delle Pari Opportunità prevede 10 milioni di euro per
incentivare i “nidi famiglia” attraverso l’esperienza delle “Tagesmutter”, le
varie giunte e amministrazioni locali si preparano al cambiamento, lasciando
boccheggiare gli asili e le scuole per l’infanzia pubbliche e finanziando in
modo cospicuo le scuole private, come successo a Vicenza dove l’amministrazione
del sindaco Variati (del PD, eletto anche con i voti di Rifondazione Comunista,
Verdi, Comunisti Italiani, Italia dei valori, lista Vicenza Libera-No Dal Molin),
ha aumentato il contributo alle costose (per le famiglie che vogliono
accedervi) nove scuole d’infanzia paritarie (aderenti alla Fism-Federazione
Italiana Scuole Materne) sia nel 2008 sia nel 2009 per arrivare ad un
contributo di ben 497 mila euro nel 2010. Nel frattempo i genitori delle scuole
d’infanzia comunali si autotassavano per l’acquisto di materiale didattico
affinché le maestre potessero essere in grado di svolgere un minimo di
attività.
E’
necessario ritornare a occupare le strade e le piazze e riportare
prepotentemente nell’agenda delle organizzazioni sindacali e politiche il tema
della sicurezza, della cura, della salute e dell’istruzione per i lavoratori, i
loro figli e le loro famiglie. Occupiamo le fabbriche che chiudono e licenziano
ed esigiamo che la crisi non sia scaricata sulle nuove generazioni! Pretendiamo,
per noi e per i nostri figli, “il pane e le rose”!