Il quadro generale
Nel mondo del lavoro le donne italiane, pur completando un maggior numero di cicli di istruzione degli uomini e fornendo dunque una forza lavoro maggiormente qualificata quanto meno dal punto di vista del titolo di istruzione, sono circa un terzo della popolazione lavorativa, con una differenza salariale di oltre il 18% nel settore privato e spesso assunte con condizioni di lavoro precarie. La minor capacità retributiva che si accompagna con una minore capacità pensionistica ovviamente, porta una parte significativa della popolazione femminile italiana sotto la soglia di povertà e di esclusione sociale.
Le cause della difficoltà per le donne a inserirsi e mantenere il lavoro sono molteplici. La «strozzatura» principale che troppo spesso favorisce l’uscita dal mercato del lavoro è rappresentata dalla maternità che induce a lasciare o ridurre l’occupazione retribuita. Le difficoltà lavorative delle donne aumentano in corrispondenza dell’aumento del numero di figli: il 30% delle donne occupate abbandona il lavoro dopo la prima gravidanza, mentre il 78% delle dimissioni «volontarie» ha riguardato le madri lavoratrici.
Gli economisti affermano che la risoluzione del problema è da individuarsi nella mancanza di interventi a sostegno della donna lavoratrice italiana: un po’ come scoprire l’acqua calda! Il graduale ritiro dello Stato da molti settori strettamente legati al lavoro di cura ha messo in ulteriore difficoltà le donne perché tagliare la spesa pubblica destinata allo stato sociale significa non assicurare le risorse necessarie per gestire i servizi pubblici per l’infanzia, i centri di aggregazione giovanile, i servizi di assistenza domiciliare per le persone non autosufficienti; significa costringere le donne alla clausura tra le mura domestica sia per sopperire le mancanze sia perché la maggior parte del personale impiegato in tali settori è femminile. Per questo motivo infatti le donne italiane lavorano molto più degli uomini, perché oltre al lavoro formale, quello retribuito, devono sommare anche il lavoro di cura ed accudimento, una «consuetudine» diffusa in tutti i Paesi industrializzati, ma in Italia è un peso che ricade per tre quarti sulle donne: si stima che al lavoro domestico le donne dedichino 3 ore e 25 minuti al giorno e al lavoro di cura dei familiari conviventi, in particolare dei figli fino a 17 anni, 2 ore e 16 minuti. Insomma un quarto della giornata occupata da lavoro cosiddetto «improduttivo» dal punto di vista capitalistico.
A consolidare queste pressioni perché la donna riprenda il «naturale ruolo di angelo del focolare», ci pensa inoltre lo svuotamento dei diritti riproduttivi e di salute sessuale. A partire dalla quasi totale inapplicabilità della L. 194/78 che ha permesso in Italia il diritto all’aborto libero, gratuito e in strutture pubbliche: l’alto tasso di obiezione di coscienza (circa il 90% di media nazionale) tra i medici e il personale ausiliario e non, mina spesso non solo l’effettiva possibilità per le donne di ricorrere all’interruzione volontaria di gravidanza, ma persino alla contraccezione.
Un peggioramento alla condizione delle donne italiane si è prodotto con manovre come il Jobs Act con la pesante accentuazione del precariato, la Buona Scuola con la «deportazione» di migliaia di insegnanti, la Legge Fornero con l’allungamento dell’età pensionistica, i consistenti tagli a sanità ed istruzione con il conseguente impoverimento dei servizi; un peggioramento in una situazione già compromessa di inserimento e permanenza nel mondo del lavoro, che ha reso le donne sempre più spesso oggetto di una violenza da cui è quasi impossibile sottrarsi senza autonomia economica e senza punti di riferimento.
Un altro affondo alla condizione femminile, anzi due, sono di stretta attualità: la riforma del congedo di maternità e il ddl Pillon.
Il primo prevede per le lavoratrici in gravidanza la possibilità di restare al lavoro fino alla data del parto, utilizzando tutto il periodo di astensione (5 mesi) dopo la nascita del figlio. Un’alternativa rispetto al sistema attuale che impone l’obbligo di astensione di uno o due mesi prima della nascita del bambino. La proposta tuttavia mina la libertà delle donne, soprattutto di quelle più precarie e meno tutelate perché le espone al ricatto del datore di lavoro, e mette in discussione la tutela della salute per le mamme e i nascituri.
Il secondo è altrettanto inaccettabile. La reale preoccupazione di questa proposta non sono le condizioni di vita di bambini, madri e padri, ma l’«unità della famiglia», quella famiglia monogamica ed indissolubile grazie alla quale il capitalismo si assicura ogni giorno la produzione e la riproduzione della forza lavoro: non tiene conto del gap salariale e occupazionale di genere o del fatto che molte donne o lasciano o perdono il lavoro dopo la maternità, che una donna lavoratrice che è anche madre, riuscirà difficilmente a dare lo stesso tenore di vita che al figlio era garantito durante la convivenza e che potrà continuare ad essere garantito dal padre, causando enormi squilibri e avendo come conseguenza anche la possibilità di perdere l’affidamento.
In questo scenario va collocato anche il duro attacco ai diritti civili, ed in particolare il diritto alla libera espressione della propria identità di genere, così come uno sguardo particolare va rivolto alla condizione delle donne immigrate. Un’escalation di violenza fisica e verbale nonché gravi episodi di intolleranza e discriminazione sono, oggi più che mai, riservati ai soggetti lgbt e alle donne immigrate che, oltre a subire le oppressioni tipiche di questo sistema come la precarietà e lo sfruttamento, sono oggetto di una profonda aggressione da parte della società.
Saremo in piazza l’8M per riprendere quella tradizione di lotta che da sempre, e negli ultimi anni in particolare, ha caratterizzato questa data, per difendere i diritti che tanta parte del movimento femminista ed operaio ci hanno garantito non tanto e non solo in quanto donne, ma soprattutto in quanto proletarie, oppresse e sfruttate. In questa lotta noi chiamiamo alla partecipazione gli uomini della classe lavoratrice perché con la loro astensione dal lavoro esprimano solidarietà alla nostra condizione e perché solo con l’unione delle nostre lotte sarà possibile sconfiggere l’oppressione e lo sfruttamento. Non lasciamo che il maschilismo, l’omofobia, il razzismo, le manovre di assestamento e di austerità che scaricano la crisi economica mondiale sulle spalle dei lavoratori, dei giovani senza lavoro, e soprattutto dei settori maggiormente oppressi come le donne, dividano la classe per incrementarne lo sfruttamento e per favorire l’arricchimento di pochi a danno di molti.
Noi, donne comuniste, vogliamo lottare per una società senza sfruttatori né sfruttati, senza oppressori né oppressi, insieme alla nostra classe, al di là delle barriere razziali, al di là delle frontiere nazionali per trasformare il mondo.