Per molto tempo si parlò di “contributo” delle donne, non di “appartenenza” alla guerra civile.
Nonostante le numerose inchieste e studi che, a partire soprattutto dagli anni Settanta, vollero rendere giustizia a quelle compagne coraggiose, ancora oggi nell’immaginario collettivo di gran parte della popolazione italiana le donne partigiane sono state un’appendice della Resistenza, importante, commovente, ma non determinante. Una Resistenza dimenticata, per un lungo periodo, attraverso la censura di foto e di testimonianze nelle quali le donne emergevano come protagoniste, foto e testimonianze che erano la prova che le donne non furono solo crocerossine, ma staffette, combattenti, organizzatrici di scioperi, dirigenti di gruppi partigiani.
All’interno dei cortei di partigiani, vittoriosi e acclamati dalla folla che sfilarono nelle città liberate dall’aprile 1945, di donne, però, se ne videro poche. Alle partigiane torinesi delle brigate Garibaldi fu impedito di sfilare dal partito perché il Pci “ci teneva ad accreditarsi come forza rispettabile”; in altre città furono i capi brigata a consigliare alle compagne di non sfilare, o almeno di farlo senza armi, oppure di farlo vestite da crocerossine.
Il corpo femminile era sempre stato visto come un corpo incapace di armarsi, il fascismo aveva imposto alla donna l'esclusivo ruolo di madre-casalinga a sostegno della forza nazionalista dello Stato e durante il periodo fascista le donne avevano dovuto assumere il ruolo di portatrici d’interessi privati, d’interessi che concernevano la sola sfera familiare. La questione demografica fu affrontata in nome del superiore interesse dello Stato, la donna doveva partorire molti figli, che sarebbe serviti nelle guerre, e il regime riconobbe solo due movimenti femminili: quello fascista e quello cattolico.
Dopo la parentesi della guerra civile, la Resistenza, che vide le partigiane in prima linea, l’Italia tradizionalista ed ipocrita respinse il protagonismo delle donne e circondò le partigiane d’imbarazzo ed ironia, guardando al loro contributo con disagio e come elemento di pericolosa trasgressione ai ruoli secolari. Le malignità più volgari le perseguitarono per molto tempo, indicate come le “femmine dei partigiani”, “ quelle che i partigiani portavano nel bosco”.
A parte il diritto di voto e la parità di genere, sancita dall'articolo tre della Costituzione, riconosciuto alle donne dopo la Liberazione, nella realtà dei fatti, nel dopoguerra le donne tornarono indietro, furono ricacciate nella sfera domestica, non solo quelle che avevano fatto la Resistenza ma anche quelle che avevano lavorato nelle fabbriche e che nella famiglia avevano avuto un ruolo primario “di capofamiglia” al posto degli uomini lontani, nei fronti di guerra.
Eppure le donne antifasciste si distinsero per coraggio e determinazione, come è confermato da centinaia di episodi, come nella famosa giornata del 16 ottobre 1941 a Parma, quando un gruppo di donne diede assalto ad un furgone del pane e centinaia di operaie uscirono dalle fabbriche per manifestare in tutta la città.
Le donne costituirono, nell’autunno del 1943, i Gruppi di Difesa della Donna, legati al Comitato di Liberazione Nazionale, questi gruppi furono luogo di azione organizzata ma anche di elaborazione politica, un’elaborazione che guardava alla società del futuro, una società che avrebbe dovuto riconoscere, nelle loro intenzioni, la completa e reale parità fra uomo e donna.
Dall'interno delle fabbriche (dove avevano preso il posto degli uomini impegnati in guerra) organizzarono scioperi e manifestazioni e negli scioperi del 1943 –44, che furono riconosciuti come una pagina importantissima della Resistenza, le donne furono protagoniste, e alcune di loro principali organizzatrici.
A Roma, il 7 aprile 1944, un gruppo di donne, coinvolgendo ragazzi e anziani, cercarono di assaltare il mulino Tese, per impadronirsi del pane. I nazifascisti spararono sulla folla, e fucilarono dieci donne: Clorinda Falsetti, Italia Ferraci, Esperia Pellegrini, Elvira Ferrante, Eulalia Fiorentino, Elettra Maria Giardini, Concetta Piazza, Assunta Maria Izzi, Arialda Pistoleri e Silvia Loggreolo. Ultima vittima della protesta fu, il 3 maggio successivo, una madre di sei figli: Caterina Martinelli, mentre ritornava a casa con la sporta piena di pane dopo l'assalto a un forno nella borgata Tiburtino III, fu falciata da una raffica di mitra.
Molte donne rimasero coinvolte in rastrellamenti e molte partigiane furono catturate, torturate e uccise. Alle donne, oltre alla tortura, erano solitamente riservati altri “trattamenti”: denudate per indebolirle psicologicamente, mentre spesso i torturatori si adoperavano in atti di violenza carnale e le torture, come scosse elettriche e ferro da stiro bollenti, si soffermavano sui capezzoli o sulle parti genitali.
I dati ufficiali, a fine della guerra, parlavano di circa 35.000 (trentacinquemila) donne partigiane ma stime successive parlano di circa 2.000.000 (due milioni) di donne che contribuirono in varia forma alla liberazione dal fascismo. Alcune stime della partecipazione femminile alla Resistenza parlano di 70.000 donne organizzate nei Gruppi di difesa della donna ; 35.000 donne partigiane, che operavano come combattenti; 20.000 donne con funzioni di supporto; 4.563 arrestate, torturate e condannate dai tribunali fascisti ; 2.900 giustiziate o uccise in combattimento; 2.750 deportate in Germania nei lager nazisti; 1.700 donne ferite; 623 fucilate e cadute; 512 commissarie di guerra. Ma la verità sulla partecipazione delle donne alla guerra partigiana è stata per troppo tempo parzialmente occultata, ostacolata o deviata perché si possa parlare di numeri certi.
Pochissime, rispetto alle aventi diritto, furono le donne che si presentarono a ritirare l’attestato per aver partecipato alla Resistenza e le partigiane italiane decorate con medaglia d’oro al valor militare furono diciannove.
Le donne della Resistenza non hanno combattuto solo contro il fascismo ma anche contro la disuguaglianza e l’ingiustizia sociale e di genere. Eppure, da numerose loro testimonianze emerge come solo raramente riuscivano a condividere, con i loro stessi compagni di lotta, la necessità di combattere anche la specifica oppressione femminile. Il motivo lo possiamo trovare nel fatto che anche i quadri politici più preparati del Pci erano influenzati dallo stalinismo e dai dettami della III internazionale stalinizzata che massacrò i migliori bolscevichi e le migliori bolsceviche in tutto il mondo.
Maria Erminia Gecchele “Lena”, comunista, operaia nei lanifici di Schio (Vicenza), esemplare staffetta partigiana, torturata a Padova dagli sgherri della “Banda Carità”, non parlò, e per tutta la vita portò nel suo corpo martoriato i segni delle torture: “Venni portata alle carceri di Vicenza. Qui cominciò il mio calvario: l’alternarsi di interrogatori e torture….sempre nuove e perfezionate, … sarebbe bastato pronunciare un nome per provocare la catastrofe di un paese, tutto finiva nell’assoluto silenzio, unica sperimentata salvezza…”
Rosanna Rolando (Alba Rossa), comunista, organizzò a Torino, nella fabbrica dove lavorava, l’attività antifascista, arrestata in seguito ad una delazione, subì senza parlare, per giorni, violenze e torture: “mi picchiavano sulla testa e sui polmoni…mi picchiavano tre volte al giorno…una sera in quattro…erano ubriachi fradici…mi hanno fatto ogni sorta di violenza…quando sono andati via, ho preso un bicchiere di cristallo che era nella stanza e l’ho rotto,… non ce la facevo più…avevo già rigato la pelle del braccio, quando mi è comparsa davanti l’immagine di mio figlio, mi sono detta: può darsi che non mi uccidano e servirò ancora a lui e a altri…mi sono calmata e mi sono vestita...”
Nelia Benissone Costa (Vittoria) di famiglia operaia, a otto anni organizzò uno sciopero di protesta contro i fascisti nella sua scuola, in seguito, attiva nel Partito comunista clandestino partecipò alla Resistenza con svariati importanti incarichi: “Lavoravamo proprio collettivamente,….ogni donna, ogni compagna, ogni amica poteva avere delle idee buone e noi le discutevamo tutte…discutevamo dei problemi che sono anche di oggi.. quasi tutte lavoravano in fabbrica e, come sempre, pochissimo era il tempo che avevano a disposizione, perché dovevano accudire alla famiglia, fare la spesa, guardare i bambini…In quegli anni di lavoro politico, durante la Resistenza e poi dopo, posso dire che gli uomini non hanno mai dato al lavoro delle donne l’importanza che avrebbero dovuto. I discorsi tra i compagni dopo il 25 aprile erano questi: le donne sono arrivate,hanno ottenuto il voto grazie alle nostre battaglie e alle nostre lotte, ormai è tutta risolta la questione femminile…avrebbero dovuto invece capire l’importanza del lavoro delle donne… la donna che andava per la prima volta a votare, che politicamente non era matura, che era stata tenuta per anni in soggezione, non abituata a discutere di politica, tradizionalmente legata alla Chiesa e quindi soggetta a quello che il prete andava dicendo nella predica e nella confessione, la donna doveva essere maggiormente aiutata nella sua formazione, nei comizi…c’erano dei preti che dicevano che se il marito votava comunista la donna non doveva più andare a letto con lui…il livello della propaganda era questo nel ’48…gli uomini, anche i compagni che sono emancipati, che vanno in sezione, che fanno vita politica, quando io dicevo: “Compagno, portami un po’ la tua donna, le tue figlie qui in sezione… Loro rispondevano: “Eh…Vittoria… scherzi!” …”No, non scherzo, hai paura che i calzini non siano rammendati, domani? Hai paura che la minestra non sia ben cotta domani? Portami qua la tua donna, perché è lei che va a comperare nei negozi, è lei che va in fabbrica, in filatura, sta vicino alle compagne che lavorano”…. Quando è arrivata la Liberazione io ero dentro fino ai capelli per l’organizzazione provinciale…siamo arrivati al ’47 al mio esaurimento…mio marito era un bravo medico…avrei dovuto seguirlo nel suo lavoro, avrei lasciato l’attività politica e sarei guarita dall’esaurimento… ma lasciare l’attività politica di colpo per me ha voluto dire non dormire più! E quando mi addormentavo, di notte, dopo ore d’insonnia, mi sognavo di essere in mezzo alle gente, di discutere, ma non riuscivo più a convincerla. Nel sogno continuavo a dire: guarda, se avessi detto questo sarei stata più convincente, guarda non l’ho fatto! Ho tribolato e ho sofferto moltissimo… Ho cercato di dare a mia figlia quello che non potevo dare a altri. A una sola è un po’ poco, lo so. Però ci sono certi compagni che affermano di non voler parlare volontariamente ai figli e alle figlie per non metterli nei pasticci..”.
Albina Caviglione Lusso (Laura), a dodici anni lavorava già in fabbrica, comunista dalla fondazione del partito, membro del CNL (Comitato Liberazione nazionale) in fabbrica : “Durante lo sciopero del 1920 ho partecipato all’opera del disarmo morale della Brigata Sassari, mandata per reprimere i moti operai…nel borgo mi chiamavano, con rimprovero, “ la morosa dei soldà”. Ma la Brigata Sassari si è poi rifiutata di sparare contro i lavoratori..Fallita l’occupazione delle fabbriche, nel gennaio 1921 si è giunti alla scissione del Partito socialista. Io mi sono iscritta subito al Partito comunista d’Italia. E’ stato quello il periodo che le squadracce fasciste hanno incominciato a imperversare…le donne in quel periodo hanno lavorato forse più degli uomini… certo tutto quello che hanno fatto le donne durante la Resistenza, a guerra finita, non è stato adeguatamente riconosciuto…le donne non hanno saputo farsi valere, prendendo magari posti chiave nell’organizzazione. Le donne, che avevano fatto tanto, erano restie a parlare, a prendere la parola nelle assemblee. ..”
Teresa Cirio (Roberto), comunista, finite le elementari iniziò a lavorare, partecipò alla Resistenza e assicurò i collegamenti e la distribuzione della stampa clandestina fra Milano e Torino, partecipò alla preparazione dello sciopero preinsurrezionale torinese “…bisogna dire che la Resistenza è stata un lavoro di massa…e tutte le iniziative di massa che hanno fatto le donne di Torino! Hanno dato l’assalto ai treni, hanno fatto una manifestazione per lo zucchero davanti a Piazza Castello…hanno ottenuto la distribuzione dei viveri…Sono stati mesi terribili: le case crollavano, tutti i momenti un compagno perso. E noi abbiamo continuato fino all’ultimo, fino all’insurrezione, a tenere tutti i collegamenti…Poi quando sono arrivati i partigiani hanno dato man forte…Ma Torino praticamente l’hanno liberata gli operai….Sì, si sono fatte dopo la Liberazione tante scuole, tanti corsi, ma nel ’50 a Torino c’è stata la caduta del sindacato alla Fiat: la reazione! Hanno buttato via tutti i partigiani dalle fabbriche, i migliori. Non c’erano più quadri nelle fabbriche, erano stati cacciati tutti. Alla Fiat hanno fatto il reparto confino, dove mandavano tutti i compagni. Lo chiamavano il reparto Stella Rossa…. Per le donne in politica…è stato con il ’69, il periodo della contestazione, che non si è fatto abbastanza nel Partito per stare ai passo con i tempi…anzi, hanno smantellato le organizzazioni esistenti…hanno cominciato a dire che le donne erano già emancipate…è stato un errore gravissimo…secondo me la donna bisogna che conosca i principi dello sfruttamento in fabbrica. Deve avere questa base. Allora sì che poi si orienta, ha chiarezza, diventa formidabile”.
Anna Cinanni (Cecilia), partecipò attivamente alla Resistenza, organizzatrice di formazioni garibaldine e del Fronte della gioventù, fu arrestata e seviziata: “…Noi giovani del Fronte…facevamo molte discussioni…abbiamo preso il materiale di Lenin e la lettera di Clara Zetkin, che abbiamo battuto a macchina e discusso…Avevamo fatto nelle caserme un giro di volantini…per i soldati, per farli disertare e andare su in montagna…Le botte le ho avute nei primi giorni, quando mi interrogavano in caserma…che mi avessero picchiato ha addolorato moltissimo mia madre, che mi ha ancora trovato i segni..ma queste cose noi le sapevamo, perché ci eravamo formate leggendo la storia di tutti quelli che erano presi. Noi conoscevamo come erano finite Irma Bandiera, Gabriella Degli Esposti, e questo ci rafforzava… devo dire, sono orgogliosa di questo: che, nonostante tutto, sono riuscita a raccontare le fandonie che ho voluto e non ho parlato. Il Partito, i compagni, erano preoccupati del mio arresto, perché avevo tutto il Piemonte nelle mie mani. Se avessi parlato…Ripeto, questo è il mio orgoglio….In carcere ho imparato tante cose: per esempio ho capito il problema della prostituzione. Il fascismo prima le sfruttava e le schedava, poi le gettava in carcere. La solidarietà fra le compagne del carcere è stata grandissima…Dopo la Liberazione credo che, più o meno, siamo stati tutti delusi…credevamo veramente che, battuto il fascismo, avremmo avuto quella libertà che ognuno di noi sognava, e la giustizia sociale. Non abbiamo pensato che l’avversario si sarebbe certamente organizzato”.
Elsa Oliva (Elsinki), a otto anni iniziò a lavorare come domestica, diventò antifascista e con un gruppo di compagni organizzò attacchi contro le forze di occupazione, arrestata dai fascisti nel 1944 fu condannata a morte ma riuscì a fuggire. Rientrata in formazione continuò la lotta armata fino alla Liberazione “… Dopo un paio di giorni che ero in formazione ho detto… “Non sono venuta qua per cercare un innamorato. Io sono qui per combattere e ci rimango solo se mi date un’arma e mi mettete nel quadro di quelli che devono fare la guardia e le azioni. In più farò l’infermiera. Se siete d’accordo resto, se no me ne vado”…Curavo i mie compagni, ma non li servivo…Il dopo liberazione è stato certamente molto diverso da come lo pensavo…E a Milano, quando c’è stata la sfilata, tra quella moltitudine plaudente e tutti con le coccarde- matti, proprio matti!- pensavo che forse una buona parte erano quelli che ci avevano sparato contro. Alle staffette, nelle sfilate, mettevano al braccio la fascia da infermiera!… Il mio rimpianto più grande è stato quello di non essere morta prima, durante la lotta….non avrebbe dovuto essere assolutamente permessa la riorganizzazione legale del fascismo, la nascita del MSI,… che ora è perfino sovvenzionato dallo Stato…le agevolazioni sono state sempre per i medesimi, per i ricchi, quelli che oggi portano la camicia beige o azzurra , ma che è sempre la camicia nera di ieri… Le armi me le hanno trovate nel ’47…tutti avevano ancora armi in casa, perché pensavano di doverle ancora adoperare. Non avevamo visto, con la Liberazione, quello che avevamo sognato tanto in montagna.”
Maria Martina Rustichelli (Iuccia o Sonia), entrò con il marito, operaio comunista e perseguitato politico, nella Resistenza, attiva nei Gruppi di difesa della donna, divenne staffetta partigiana, portò alle formazioni partigiane sei disertori tedeschi della Wehrmacht: “Sfamare i partigiani in casa era sempre difficile. Le volte che ho saltato i pasti! “e tu non mangi?” mi chiedevano. E io: “Ma ho già mangiato”…non si poteva fare diversamente… A volte penso: “Si è fatto tanto e il mondo non è cambiato!…Tanti morti, tanti sacrifici!…E oggi si vede tanta gente che si fa bella con la Resistenza, ha delle cariche, si mette in mostra , e che non ha fatto niente. Ma noi non ci siamo sacrificati per l’ambizione di avere qualcosa…noi donne soprattutto, non abbiamo avuto proprio niente: la parità è sulla carta, è più campata per aria che reale..Senza le donne la Resistenza non si sarebbe sostenuta, non avrebbe potuto esserci…”
Tersilia Fenoglio (Trottolina), svolse attività di propaganda, fornendo informazioni e procurando finanziamenti alle organizzazioni partigiane, segnalata dai nazifascisti si diede alla macchia, diventando staffetta e tenendo i collegamenti con il Cnl: “..Facevo tutta quella strada, quaranta chilometri,in un giorno, con sessanta centimetri di neve, ma ero felice, così entusiasta, proiettata verso il futuro, al di là della Liberazione, quando ci sarebbe stato un mondo di giustizia, un mondo senza brutture, un mondo di idealità!Poi è crollato tutto. Terribile, terribile, terribile, Per me la Liberazione è stata uno choc. Sono arrivati gli inglesi… Poi siamo andati a Torino. Io non ho potuto partecipare alla sfilata, i compagni non mi hanno lasciata andare…”
Lucia Canova (Lucia): frequentò le sei classi elementari e poi, pur lavorando nei campi, studiò alle scuole serali. Nel 1921, delegata al Congresso socialista di Livorno, fu tra i fondatori del Partito comunista d’Italia. Perseguitata dal fascismo, trascorse otto mesi di carcere : “…già da piccola quando andavo all’asilo dalle suore, le mie osservazioni le facevo sul cestino della merenda: la mamma, con tutti i suoi sacrifici, dentro al mio metteva quel poco che poteva, mentre vedevo un’altra categoria di bambini che avevano magari la bistecca…e anche il trattamento delle suore nei riguardi degli uni e degli altri: i poveri, lasciati da parte, e quelli già benestanti, curati, con il lettino per il riposo….quelle cose mi hanno fatto pensare…benché non capissi, in principio, cosa dovessi fare…perciò sono entrata nel partito…nella sezione comunista ero responsabile della stampa e della propaganda. Arrivava sempre a nome mio l’”Ordine Nuovo”. In media, una volta ogni due mesi avevo la perquisizione domiciliare…avrò avuto più di cento perquisizioni..ma invece di calmarmi, mi infervoravano di più…Quando ci sono state le formazioni partigiane, ho organizzato io il Gruppo di difesa della donna, con un centinaio di donne subito…Alla Liberazione speravamo che il mondo sarebbe stato diverso, … che si capovolgesse…e siamo stati delusi…non ci siamo resi conto che, scappate le truppe di occupazioni tedesche, c’erano quelle inglesi e americane…Io il mio diploma da partigiana lo tengo in casa, ma tanti giovani l’han strappato… quella era una battaglia che si doveva fare…provi a volte, nella lotta, delle amarezze, tante amarezze, ti trovi in contrasto anche con i compagni, non è sempre facile andare d’accordo…le altre cose, le piccole beghe personali, sono bagattelle a cui cerco di essere superiore. Il fine è un altro, quello di poter dare all’umanità quello che le spetta, di potere alleviare tante sofferenze…Aveva ragione Gramsci. Me lo vedo ancora: “Sono stati distribuiti tutti i giornali?” “Sì, sì”. “E’ un seme che è stato gettato, e frutterà”.
Le donne proletarie di oggi, nell’attuale crisi storica del capitalismo che porta - se non saremo capaci di deviare il percorso in senso rivoluzionario - l’intera umanità verso la barbarie, hanno il dovere di raccogliere il seme che con l’esempio delle loro vite ci hanno lasciato le compagne partigiane. Lo stanno facendo anche le donne combattenti a Kobane, e i milioni di donne che lottano ogni giorno, in ogni parte del mondo, per il pane, il lavoro, la pace che il sistema capitalistico, oggi come allora, non vuole e non può concedere.
Pur mantenendo e sottolineando la loro specificità, la loro diversità rispetto agli uomini, le donne che non accettano di vivere in questo mondo criminale di razzismo, povertà e guerre, devono unire il loro movimento di liberazione a quello di tutti gli oppressi del mondo, recuperando il carattere internazionalista della lotta. Per quanto i Paesi, le storie, le culture e le lingue siano diverse, il fulcro della lotta è in tutto il mondo la contraddizione capitale-lavoro, che determina, insieme alle altre contraddizioni, anche il permanere dell’oppressione femminile.
Come tentarono di fare molte fra le partigiane che contribuirono alla Resistenza, si profila per l’attuale movimento delle donne, contro la violenza sulle donne e per la loro reale emancipazione, un compito arduo ma necessario: allargare il movimento delle rivoluzionarie che lottano nel mondo e condurlo a camminare di pari passo con quello di tutto il proletariato, uomini e donne insieme, per liberare la vita di tutti dallo sfruttamento e dall’oppressione.
- La Resistenza taciuta. Dodici vite di partigiane, di Anna Maria Bruzzone e Rachele Farina (Prima edizione La Pietra1976-Prima edizione Bollati Boringhieri settembre 2003)
- La lunga via, di Nedda Petroni (Giovane Talpa 2004)
- Maria Erminia Gecchele “Lena”. L’eroismo di una partigiana, di Ezio Maria Simini -Quaderni di storia e di cultura scledense (Libera Assoc. Cult. “Livio Cracco” Schio dicembre 2009)